They said the world was built for two

Roland e Nalani - Maine (Brunswick + Bar Harbor)

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    Roland Moreau Deschain

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    oland osservò il camion dei traslochi che, lentamente, faceva manovra nello spiazzo antistante l'edificio, per poi immettersi nel traffico mattutino di Brunswick. Erano da poco passate le nove e la città era in fermento già da qualche ora; in realà, lui lo sapeva bene, la città non si fermava mai. Di notte, infatti, sebbene tutto sembrasse calmo, sebbene fossero in pochi ad aggirarsi per le strade - fatta eccezione per i militari di ronda - la vita continuava: mentre gli uomini per bene cenavano con le loro famiglie o si concedevano un pò di riposo, gli uomini come lui iniziavano il loro lavoro. Da quanto non dormiva più di quattro o cinque ore a notte? Da innumerevoli anni ormai, ancor prima del suo trasferimento da Portland. Aveva passato la sua gioventù a servizio della famiglia Moreau, come erede di quell'impero malavitoso che controllava una vasta area del Maine, e già allora i suoi impegni erano innumerevoli. Quando poi aveva deciso di dichiarare guerra alla sua stessa famiglia, non aveva avuto un attimo di tregua; ma il suo lavoro era stato ripagato egregiamente. Da più di due anni infatti aveva ottenuto il monopolio dei commerci - più o meno legali - dell'area metropolitana di Brunswick, e il suo impero era destinato ad allargarsi, andando a danneggiare ulteriormente quello di suo padre. Quando Gustave Moreau aveva scoperto del tradimento del figlio, aveva cercato invano di riconquistare la città, ma la guerriglia urbana non era durata molto: gli uomini del Sussurratore, infatti, erano già stati dimezzati da quelli di Roland. In quel momento i due si trovavano in una situazione di stallo, ma la tregua non era destinata a durare: Roland sapeva che, presto o tardi, l'uomo sarebbe tornato all'attacco. Era solo questione di tempo. "Ma di sicuro, il tempo a me non manca..." pensò, staccandosi dalla balaustra del ballatoio che si affacciava sul cortile interno dell'albergo. Aveva scelto quella struttura come base per le sue attività non appena era arrivato in città, principalmente per la sua posizione strategica e sebbene i profitti delle sue attività gli avessero dato la possibilità di mettere le mani su strutture più lussuose, non aveva mai preso in considerazione l'idea di un trasferimento. La verità era che gli piaceva l'idea di vivere nel suo quartier generale, così da avere tutto sotto controllo: così facendo, sarebbe stato presente nel caso qualcuno avesse deciso anche solo di provare a mettergli i bastoni tra le ruote. Aveva dunque trasformato quel vecchio albergo in un complesso di appartamenti e aveva tenuto per sé l'ultimo piano, quello con le camere più lussuose, e lo aveva trasformato in un immenso attico, sin troppo grande per una persona sola. Ma al Sensate, avere un luogo tutto per sé, non dispiaceva poi così tanto: aveva sempre vissuto obbligato ad una convivenza forzata con altre persone - presenti più o meno fisicamente - e ora che poteva concedersi il lusso di rimanere solo, non se lo sarebbe fatto sfuggire.

    Con passi lenti e cadenzati, Roland percorse l'intero ballatoio, diretto al vano scale che gli avrebbe permesso di raggiungere l'utlimo piano. "Buongiorno Signor Deschain" lo salutò una ragazza intenta a stendere i panni fuori dal suo appartamento. "Buongiorno Allie" la salutò lui con un cenno del capo, mentre lei abbassava lo sguardo imbarazzata. Allie Chambers, diciannove anni e un bambino di due, era arrivata a bussare alla sua porta tre mesi prima, senza un soldo in tasca né un posto dove andare; Roland le aveva offerto un monolocale, dandole la possibilità di non pagarlo subito, poichè la ragazza non ne aveva la possibilità. Se però, allo scadere del mese, lei non avesse pagato, non si sarebbe limitato a buttarla fuori di casa. La ragazza però, in qualche modo, era riuscita a racimolare quanto bastava per pagarlo e Roland non era stato obligato a lasciarla per strada, tenendosi suo figlio come pegno. Sì, perchè Roland Deschain non era una persona insensibile, ma non poteva di certo permettersi di fare regali a chiunque: se avesse fatto un'eccezione per la ragazza, avrebbe creato un precedente e se voleva mantenere la sua posizione di potere, non si sarebbe potuto permettere simili strafalcioni. Del resto, si trovava ai vertici nonostante la giovane età più che altro per il suo carisma e per il suo ingegno e fare passi falsi non era da lui: aveva calcolato ogni mossa e non sarebbero bastati due occhioni da cerbiatta ad impietosirlo. Quel pensiero lo riportò, inevitabilmente, a ripensare ad Hikari e alla prima volta che aveva scorto gli occhi di lei riflessi nello specchio della sua camera: nonostante fossero passati anni dalla morte della ragazza, ogni tanto Roland si ritrovava ancora a cercare gli occhi di lei nel suo rifleso; era un vizio che, probabilmente, non avrebbe perso mai,così come non avrebbe mai perso quel tic che lo portava a sfiorare la testata del suo letto prima di coricarsi... un vizio di Chris, che lo faceva per scacciare i Sussurratori nascosti sotto il letto. Gli stessi Sussurratori che lo avevano avvelenato e lasciato morire in un campo di quarantena. Con un sospiro, Roland socchiuse gli occhi e aprì la porta del suo appartamento, sopprimendo l'istinto che lo spingeva a ricercare la mente di Henry: ormai da tempo i loro collegamenti si erano ridotti al minimo indispensabile proprio a causa di quei spigolosi ricordi che Roland aveva fatto suoi. Tra i due era sempre stato lui quello più empatico, quello con la mente più proiettata verso il resto della loro cerchia e questo aveva fatto di lui quello che maggiormente aveva sofferto per la dipartita di Hikari e Chris. Henry, da parte sua, aveva ben altro problemi, altri sensates da guidare e a cui insegnare a controllare il loro dono, così come aveva fatto con lo stesso Roland. "Non posso permettere che il tuo stato d'animo alterato danneggi gli altri..." gli aveva detto una volta e Roland aveva bruscamente chiuso le comunicazioni. Odiava quella situazione, odiava essere debole e vittima di quelle emozioni altrui; mal sopportava l'idea di provare ancora sulla pelle la follia di Chris e il dolore di Hikari ma, nel contempo, l'idea di vivere senza lo faceva sentire ancora peggio. Se avesse dimenticato, se fosse rimasto impassibile davanti a simili barbarie, sarebbe risultato un mostro ben peggiore di quanto lui già non fosse. Con quei pensieri che gli frullavano in testa, Roland si richiuse la porta dell'attico alle spalle per poi recarsi nel grande salone, per osservare il suo bottino. La sera prima aveva consegnato un'ingente partita di droga al Generale dell'esercito che, quantomeno ufficialmente, controllava la città; uomo che altri non era se non un burattino di Roland che, in cambio di poche rogne in città, del buon vino, qualche donna e molta cocaina, si era venduto al miglior offerente. Il sui ruolo era pura facciata: il vero padrone di Brunswick osservava ogni cosa dall'ombra. Per quella consegna, Roland non aveva ricevuto denaro contante ma un pianoforte a coda: da quando i Sussurratori avevano dichiarato guerra all'umanità il baratto era tornato in auge e chi non poteva permettersi di pagare con i soldi, utilizzava quel tipo di commercio. Roland, da parte sua, accettava qualunque tipo di pagamento: che fosse denaro contante, beni immobili o oggetti di valore cari ai suoi clienti, accettava tutto. Senza indugio, avanzò sino allo strumento, sfiorandolo con le dita affusolate: nonostante la guerra, si era conservato egregiamente e valeva, a suo parere, molto più della merce consegnata. Meglio per me... pensò sorridendo beffardo mentre prendeva posto sullo sgabello davanti allo strumento.

    I Moreau avevano un pianoforte a muro, nella Villa padronale a Portland, Roland lo ricordava sin troppo bene: sua madre lo aveva suonato un paio di volte, quando suo padre aveva annunciato la conclusione di questo o quel grosso affare, piuttosto che la morte di qualche rivale. Era successo pochissime volte: in tutte le altre occasioni quello strumento era rimasto silenzioso a prender polvere; poi lui aveva compiuto diciannove anni e aveva conosciuto Hikari e, con lei, la musica. In quei tre anni di contatto forzato, obbligato, a causa dell'incapacità di lei di chiudere la mente, Hikari aveva a insegnato a Roland a suonare. Sebbene volesse fare la pittrice, Hikari non aveva solo quell'hobby: sua nonna le aveva trasmesso la passione per la musica e la ragazza aveva imparato a suonare la chitarra, il violino e, infine, il pianoforte. Avendo a disposizione solo quello strumento, un pomeriggio, Roland le aveva chiesto di dargli lezioni: con il semplice contatto telepatico, se lei si fosse allenata a condividere le conoscenze, Roland avrebbe potuto suonare lo strumento senza aver mai realmente imparato, ma quell'idea non gli era mai andata a genio... perchè non sarebbe stato reale. E Roland non voleva essere obbligato a suonare solo in presenza di lei, voleva essere libero di farlo sempre, ogni qual volta i suoi genitori lo avessero lasciato in pace. Poi, una volta arrivato a Brunswick, si era reso conto che l'unica cosa che gli mancava di quell'imponente villa, era proprio quel vecchio pianoforte: ma da quel giorno non ne avrebbe più avuto nostalgia. Per un istante sfiorò i tasti con delicatezza, azzardandosi a suonare un unica, lunga nota, che rieccheggiò tra le mura del salone, strappandogli un fugace sorriso. Poi, silenziosamente, Roland iniziò a suonare uno dei suoi brani preferiti. Chopin era sempre stato in grado di trasportarlo altrove con la mente, facendo comunque sentire, nel contempo, a casa, anche quando la sua vera casa aveva iniziato ad andargli stretta. Così quella mattina, mentre la vita all'esterno continuava a seguire il suo corso, Roland si concesse la possibilità di prendersi una pausa e di lasciar vagare la mente. Le sue dita correvano veloci sui tasti, sebbene nessuno spartito fosse davanti ai suoi occhi: beni di quel tipo erano ancora più rari e preziosi, poichè molto era andato perduto nei primi anni della Guerra. Solo con l'avvento d quella pace apparente la popolazione aveva iniziato a riavvicinarsi alle arti e a tutto ciò che di superfluo poteva esserci nella vita dell'uomo; quei beni effimeri erano stati messi da parte in favore delle armi, ma Roland aveva sempre pensato che senza l'arte, la vita non sarebbe stata vita. Lui era venuto al mondo per vivere, non certo per sopravvivere e privandosi dei piaceri dell'esistenza non avrebbe mai vissuto realmente. Per quella ragione leggeva, scriveva e recitava poesie, per quella ragione suonava. E fu proprio a metà dell'esecuzione, mentre si sentiva realmente vivo che Roland la percepì: una presenza estranea, anomala, si stava palesando sul fondo della sua mente. E la sensazione di essere altrove che ben conosceva iniziò a farsi largo nel suo animo. Non credette nemmeno per un istante che potesse trattarsi di Henry: il loro legame durava da anni e il Sensate era sicuro di poter riconoscere immediatamente l'unico membro sopravvissuto della sua cerchia. Ma se non era Henry, chi si stava affacciando sulla sua mente? Aveva imparato a chiuderla ai Sussurratori, dunque vi era un unica spiegazione: il destino aveva deciso di affidare alla sua cerchia un altro Sensate. Una volta appurato ciò, tuttavia, Roland non smise di suonare: non avrebbe rinunciato alla suo attimo di quiete e libertà per nessuno, neanche per colui - o colei - che si stava appropriando dei suoi sensi. I tasti del pianoforte, invero, gli sembravano sempre meno presenti, mentre un sommesso vociare tipico degli uffici invadeva le sue orecchie; fu allora che, suonando le ultime note, Roland chiuse gli occhi, pronto a riaprirli su una realtà distante dalla sua forse di pochi chilometri, forse di centinaia. "Coraggio...dimmi chi sei.." Un pensiero sussurrato, il suo, rivolto al misterioso intruso.

    *Fa un respiro profondo* Ok...ci siamo u.u Il primo post del GdR *-*
    *collassa*
    Ahhhh spero ti piaccia u.u E...pronti per la guerra? ahahahah xD
     
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    Siiiii hai inaugurato il GdR *^* *lancia coriandoli*
    Lo adoro e sono prontissima per la guerra :shifty: Recupero i guantoni, come avevo scritto nel portfolio di là, quando abbiamo prenotato la loro prima role e guarda dove siamo finite :shifty:


    Nalani Eos

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    N
    on era stato difficile riabituarmi a svegliarmi da sola. Avevo creduto che avrei impiegato più tempo prima di non sentire la mancanza di qualcuno quando aprivo gli occhi e vedevo il lato destro del letto vuoto, invece sembrava che avessi razionalizzato la fine della mia relazione con Emmet meglio di quanto avessi preventivato. Probabilmente era complice anche il fatto che mi fossi trasferita, quindi casa nuova, nuovi ricordi. Il cuscino alla mia destra non aveva mai accolto il capo di Emmet e quindi non era strano non vederlo lì, con un braccio proteso verso di me, mentre rubava ancora qualche istante alla veglia. Tuttavia, appena spensi la sveglia, mi voltai verso il lato che solitamente occupava Emmet, scoprendolo intatto. Mi resi conto che stavo provando delle sensazioni particolari, inaspettate. Da una parte la ferita che Emmet mi aveva causato bruciava ancora, ma, da un'altra parte, sentivo quasi un senso di liberazione. Non significava che non avessi amato Emmet, tutt'altro, ma ero sollevata al pensiero che la nostra relazione fosse naufragata. Stavo mentendo a me stessa? Era il mio orgoglio che parlava, la mia testardaggine che mi portava a preferire questa versione dei fatti piuttosto che ammettere che ero distrutta dal suo tradimento? Non lo sapevo. Portavo con me ancora gli strascichi di quanto successo a Washington e per quanto mi sforzassi, non potevo negare che non avevo un approccio completamente lucido e razionale con quegli eventi. Mi sarei dovuta affidare al tempo, che avrebbe rimesso tutto a posto, ed allora avrei potuto comprendere con maggiore chiarezza quali fossero i miei veri sentimenti.
    Una cosa era certa: all'inizio Emmet non mi piaceva. Questo significava che dovevo sempre fidarmi delle mie prime impressioni. Sempre. Se una persona non mi piaceva di primo acchito, era così e basta. "Ricordatelo" mi dissi alzandomi dal letto e preparandomi per il lavoro. Non era raro che al mattino mi svegliassi ripensando ad Emmet. Avevo ancora dei contatti a Washington e avevo saputo che era uscito dall'ospedale ed era stato assicurato alla giustizia. Speravo che avessero buttato la chiave della sua cella. In ogni caso, sebbene talvolta mi destassi pensando al mio ex compagno, era facile smettere di meditare su di lui e concentrarmi sulla mia vita. Avevo una nuova routine, che somigliava tremendamente a quella vecchia e che mi aveva aiutato ad andare avanti.
    Per quanto mi mancasse Washington e la sua vita frenetica, mi ero ambientata bene anche a Bar Harbor, sebbene in quella città la vita scorresse decisamente più tranquilla rispetto alla capitale e avevo dovuto ammettere che il mio capo aveva fatto bene a trasferirmi. Sicuramente se fossi rimasta a Washington avrei impiegato più tempo a ritrovare una sorta di equilibrio. Uscendo dalla doccia archiviai il pensiero di Emmet, concentrandomi su quello che avrei dovuto fare in giornata. Non avevo in consegna casi particolari, quindi mi sarei dedicata alla normale amministrazione: avevo dei verbali da redigere e altri da leggere. Dopo che il mio nuovo capo mi aveva eletto a sua assistente, delegava a me le mansioni più noiose come, appunto, leggere i verbali dei colleghi e riassumerglieli a voce, possibilmente nel tempo che impiegava a bere un caffè. Mi mancava un po' l'azione, ma non avrei mai sperato che succedesse qualcosa di grave solo per occupare le mie giornate.
    Mi piaceva andare a lavoro a piedi, anche in inverno, così dopo essere uscita di casa mi incamminai verso l'ufficio. Come ogni mattina da quando mi ero trasferita, mi concessi una sosta al Grey Gull dove il titolare, Duke Crocker, mi preparò il mio caffè nero. Ormai conosceva la mia ordinazione a memoria e appena mi vedeva varcare la soglia del locale mi preparava il mio bicchiere da portar via.
    "Tutto nella norma, oggi?" mi domandò chiudendo il bicchiere con un coperchio di cartone.
    «Come sempre, Duke. Lavoriamo per questo» risposi salutandolo con un cenno della mano. Uno scambio di battute che ricorreva ogni giorno. Se fossi stata superstiziosa, l'avrei considerato una sorta di rito propiziatorio, ma non credevo nella superstizione e ritenevo quelle due frasi un semplice tentativo di inserirmi nella vita della città. Duke era stato uno dei primi ad accogliermi senza farmi sentire il nuovo poliziotto, ma nel corso delle settimane ero riuscita a scrollarmi di dosso l'etichetta del nuovo-poliziotto-al-quale-non-parlare-perché-chissà-che-razza-di-persona-è.
    Mentre sorseggiavo il caffè, mi fermai dal giornalaio all'angolo della Main dal quale comprai il quotidiano locale. Davo sempre uno sguardo alla prima pagina mentre raggiungevo l'ufficio, mentre lo leggevo completamente in pausa pranzo. Anche Vince, il giornalaio (nonché giornalista locale) ormai conosceva le mie abitudini e mi faceva trovare la mia copia già piegata.
    I locali occupati dall'agenzia erano un quarto di quelli della sede di Washington, il che significava che ci si conosceva tutti, quanto meno di vista. Mi piaceva sapere con chi avevo a che fare, ma, allo stesso tempo, non ero particolarmente incline a condividere dettagli della mia vita privata. Sembrava che un ambiente lavorativo piccolo obbligasse a rendere quell'ambiente familiare. Avevo smesso di unire lavoro e vita privata: Emmet era stato un mio collega, e la cosa non si era rivelata un successo. Salutai i vari agenti e raggiunsi la mia scrivania, avviando il computer mentre posavo il bicchiere quasi mezzo vuoto sul tavolo. Diedi una sommaria occhiata ai documenti che giacevano sulla scrivania, controllando che non ve ne fossero di nuovi. No, sembrava che non vi fossero nuove carte di cui occuparmi, il che significava che almeno avrei finito in giornata.
    Sistemai il giornale nel primo cassetto della scrivania e mi accomodai sulla sedia, aderendo le spalle allo schienale mentre terminavo il mio caffè. In quell'istante di quiete, avvertii ancora la spiacevole sensazione di non essere da sola. O meglio, era naturale che non fossi da sola dal momento che mi trovavo in ufficio, ma i miei colleghi erano impegnati nelle loro attività, io invece percepivo qualcuno con me. Vicino. Mi guardai con discrezione attorno, ma nessuno mi stava degnando di attenzione. Inspirai a fondo, gettando il bicchiere vuoto nel cestino sotto il tavolo. Era lo stress causato da Emmet, non c'era altra spiegazione. Essere stata tradita da una persona che amavo aveva lasciato il segno: una brutta impressione di essere seguita. Pedinata, quasi. Credevo che con il passare del tempo tale impressione si sarebbe chetata, ma invece sembrava intensificarsi. Il saluto che mi rivolse Nathan Parker, il mio partner, mi distolse dai miei pensieri. Ricambiai con un sorriso prima di iniziare a sentire una musica. Era un brano suonato al pianoforte e, d'istinto, mi rivolsi a Nathan: «Hai cambiato suoneria, Parker?». Quella melodia mi sembrava così vicina che avevo dato per scontato si trattasse del suo cellulare, ma dall'occhiata perplessa che il mio partner mi rivolse compresi di essermi sbagliata.
    "Cos-No". Una delle sue manie: parlava talmente in fretta, Nathan, che spesso e volentieri troncava la prima parola per attaccarla alla seconda. Eppure io sentivo della musica, ed era così vicina che non poteva provenire dal telefono di qualche altro agente. Tuttavia riuscii a mascherare lo sgomento con una scrollata di spalle, lasciando cadere l'argomento. "Stai impazzendo, Nalani?" mi domandai mentre prendevo congedo da Parker e raggiungevo il bagno. Chiusi a chiave la porta, assicurandomi di essere da sola, poi aprii il rubinetto, sperando che lo scroscio dell'acqua potesse sovrastare quella melodia. Non era come quando ci si svegliava con una canzone in testa: era come se qualcuno mi stesse seguendo con un pianoforte.
    Strinsi i bordi del lavandino tra le mani, incrociando i miei occhi riflessi nello specchio. Lentamente, la musica sfumò e un tiepido sorriso soddisfatto distese le mie labbra.
    "Stress da Emmet". Ma non appena ebbi formulato quel pensiero, una voce sconosciuta si insinuò nella mia mente. Aveva sussurrato una domanda, ma sebbene la sua presenza non fosse stata dirompente, non potei fare a meno di sussultare. E in quell'istante tutto divenne più chiaro. Ne avevo sentito parlare, conoscevo l'argomento a grandi linee, ma non ne avevo mai incontrato nessuno e, di certo, non avrei mai creduto di poter essere uno di loro. Sensate. Era l'unica spiegazione, una spiegazione ben più plausibile dello stress, alla sensazione di non essere sola. Non poteva essere un Sussurratore: non era pensabile che un alieno si fosse introdotto nel Bureau.
    «Non è possibile, non posso essere una sensate» mi dissi, senza rendermi conto di aver rivolto quel pensiero anche all'uomo con il quale mi trovavo in contatto telepatico. Mi conoscevo, mi conoscevo bene, e sapevo di non essere mai stata una persona particolarmente empatica, quindi perché io? Ma soprattutto: chi era lui? Non mi andava per niente a genio l'idea di condividere qualcosa di così privato con uno sconosciuto. La mia mente era mia e tale doveva restare. Mi chiesi se percepisse la mia diffidenza o se invece si limitasse ad ascoltare le mie riflessioni. Ma ora che mi ero chiesta se percepisse la mia diffidenza significava che sapeva che stavo diffidando di lui? Decisi di concentrarmi su pensieri più semplici. Mi aveva chiesto chi fossi e a quella domanda potevo rispondere. Puntai nuovamente gli occhi nello specchio, utilizzando il riflesso per controllare il bagno nel caso in cui la sua coscienza si fosse proiettata al mio fianco e fui particolarmente orgogliosa della spinta che mi aveva portato a rifugiarmi in bagno e, soprattutto, a chiudere a chiave la porta. Mentre richiusi il rubinetto, risposi alla domanda dell'uomo: «Agente Speciale Eos, FBI. Tu? Dove ti trovi?». Mi sarei potuta presentare solo con il mio nome, senza bisogno di rivelargli anche il mio impiego, ma supponevo fosse una deformazione professionale: ormai il mio nome era sempre accompagnato dalla mia carica, anche perché raramente mi presentavo a qualcuno al di fuori dell'ambito lavorativo.


    Edited by skyfäll - 18/2/2016, 20:56
     
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    *Balla sotto i coriandoli*
    Yeeeee!
    *Si è accorta solo adesso di non aver scelto l'outfit per Roland*
    OPS xD
    ...Are you ready for the fight? u.u
    PS: ho pensato che Roland, vista la sua esperienza, potesse tenere alcuni pensieri privati, ma se non dovesse andarti bene, non esitare a dirmelo <3

    Roland Moreau Deschain

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    L
    e dita di Roland correvano veloci e sicure sui tasti, riproponendo sequenze di accordi e note si troppo familiari all'uomo che, per anni, aveva fatto della musica la sua unica via di fuga dalla realtà. Qualcuno avrebbe potuto interpretare la connessione mentale tra i Sensate come un modo per fuggire dalla realtà, ma per Roland non era più così. All'inizio, quando ancora bambino aveva conosciuto Henry, quando qualcosa nel suo piccolo mondo non funzionava, gli bastava chiudere gli occhi e cercare l'uomo per fuggire da quel mondo che iniziava già a stargli stretto; col tempo però la voce dell'uomo, le sue abitudini, ciò che faceva, erano diventate parte integrante della vita dell'Ibrido. La condivisione empatica era diventata talmente forte che, alla fine, pur non vivendo in prima persona quelle esperienze, Roland aveva iniziato a sentirle sue; inoltre, essendo la comunicazione telepatica divenuta abituale nel corso degli anni, era a sua volta entrata nella routine e, di conseguenza, non era più riuscita ad aiutarlo a staccare la spina dalla realtà più concreta che lo circondava, specialmente dopo quanto accaduto ad Hikari e a Christopher. Ma la musica, quella no, non lo aveva mai abbandonato realmente, perchè pur suonando sempre lo stesso ristretto repertorio di brani, ogni volta quelle melodie erano in grado di donargli emozioni diverse quando le eseguiva al pianoforte; ogni volta era una riscoperta della libertà. Ma quel giorno, le cose erano destinate ad andare diversamente: mentre l'uomo suonava, infatti, aveva iniziato la sua realtà quotidiana farsi largo oltre la musica, sotto forma di un nuovo ed inaspettato contatto mentale. Da più di un anno ormai la sua mente sembrava essersi chiusa a nuovi contatti con altri Sensate e Roland mai si sarebbe aspettato di essere contattato nuovamente dopo un così breve lasso di tempo. La sua esperienza di vita, infatti, si era sempre basata su pochi contatti telepatici molto intensi e diluiti nel tempo: erano passati quattordici anni tra il suo primo contatto con Henry e l'arrivo di Hikari e altri sette dall'arrivo di Christopher. In quel momento, ne erano passati poco più di due dalla prima volta in cui la mente spaventata di quel bambino malato si era connessa alla sua. Che l'esperienza e l'età lo stessero portando ad accelerare i tempi? Non poteva dirlo con certezza, perchè ogni Sensate era diverso dagli altri e lui lo aveva scoperto sulla sua pelle. Gli bastava guardare Henry per capire che affidarsi ad una casistica calcolata matematicamente non sarebbe servita a niente: l'uomo aveva infatti sviluppato moltissimi contatti mentali nel corso degli anni, tutti a distanza ravvicinata e i membri della sua cerchia allargata, non si conoscevano nemmeno tutti; di quei rapporti, tuttavia l'uomo ne aveva approfonditi pochi. Era un Sensate dotato, più di Roland, ma meno empatico; l'ibrido, invece, aveva sempre sviluppato pochi rapporti telepatici, ma tutti molto vivi ed intensi; si era sempre mostrato predisposto per la condivisione più che per l'isolamento ed era sempre stato in grado di instaurare legami solidi con i membri della sua cerchia... dettaglio che ad Henry mancava, nonostante la sua padronanza della telepatia. Roland tuttavia non poteva ignorare il fatto che, in ogni caso, i suoi tempi si stavano accelerando: cosa volesse significare quel cambiamento, però, era ancora un mistero in quel momento per lui.

    Avrebbe potuto facilmente tagliar fuori quella mente estranea e, ad uno primo sguardo, palesemente inesperta, ma la sua curiosità ebbe la meglio; e così, mentre suonava le ultime note, lasciò che la coscienza della misteriosa figura gli si avvicinasse un pò di più, lasciandosi trasportare altrove. La prima sensazione che arrivò al suo corpo, subito dopo il vociare tipico di un luogo affollato, era legata al senso del gusto: poteva sentire sulla lingua il retrogusto amaro di un caffé consumato da poco, sebbene non ne avesse bevuto neanche uno quella mattina. Poi, fu nuovamente la volta del tatto: riuscì a sentire distintamente il calore di alcuni fugaci raggi di sole che sfioravano appena la sua pelle mentre si spostava davanti alle finestre per attraversare una stanza - o un corridoio forse? Non ne aveva la certezza, poichè aveva ancora gli occhi chiusi: voleva tenere la vista come ultimo senso, usarlo solo se estremamente necessario, poichè in quel modo la sua invasione nella mente dell'altra persona sarebbe risultata più marcata... e se davvero la sua intuizione sulla natura dell'altro Sensate - all'apparenza un inesperto - si fosse rivelata esatta, affacciandosi così prepotentemente nella sua mente Roland avrebbe potuto indisporlo... o peggio, spaventarlo. E un Sensate inesperto, spaventato e in pubblico era quanto di più pericoloso potesse esserci per una cerchia. Fermo immobile sullo sgabello del pianoforte, con tutti i muscoli in tensione, Roland rimase in ascolto e, quando ritenne che fosse giunto il momento giusto, inviò un pensiero flebile, sussurrato, alla persona dall'altra parte. "Coraggio...dimmi chi sei..."

    «Non è possibile, non posso essere una sensate»
    Quel pensiero, involontariamente giunto sino a lui, gli strappò un sorriso ironico e gli diede un'informazione in più: l'altra persona, l'altro Sensate, aveva parlato di sé al femminile; di conseguenza, doveva trattarsi di una donna. "Il ciclo si ripete..." pensò, guardandosi bene dal condividere quel pensiero con la persona in ascolto dall'altra parte. Sembrava infatti che l'alternanza uomo-donna fosse una costante nei suoi contatti telepatici:prima Henry, poi Hikari, seguita da Christopher e... chi era che si era insinuato nella sua mente? ...è quello che dicono tutti la prima volta... commentò laconico Roland, rimanendo in ascolto dei pensieri della donna. Lui non aveva formulato quel pensiero una volta conosciuto Henry, per il semplice fatto che, essendo suo padre un Sussurratore, riteneva la telepatia una cosa normale poichè, sebbene fosse un dono ad appannaggio di pochi, nonostante avere un parente Sussurratore non volesse dire ereditare necessariamente quel dono, Roland aveva già avuto modo di provarla sulla propria pelle. Sentiva la diffidenza di lei farsi strada nella sua mente e...come avrebbe potuto biasimarla? Un perfetto sconosciuto aveva appena iniziato a parlare nella sua testa, nel bel mezzo di una giornata che sarebbe dovuta essere come tante altre... e quello sconosciuto sarebbe potuto essere chiunque, anche un pericoloso criminale. A quel pensiero sorrise di nuovo tra sé e sé e decise di compiere un primo azzardo: con la mente ancora focalizzata sul contatto, Roland riaprì gli occhi; fu in quel momento che la vide, riflessa nello specchio di un bagno anonimo nel quale doveva essersi rifugiata quando aveva percepito quell'anomala sensazione di non essere soli... quando, probabilmente, lo aveva sentito suonare. Diede un rapido sguardo alla sua immagine riflessa e, dopodichè, si ritrasse da quel contatto forzato, tornando a vedere il pianoforte e i suoi tasti, ora silenziosi. «Agente Speciale Eos, FBI. Tu? Dove ti trovi?» Davanti a quell'affermazione, Roland scoppiò istintivamente a ridere, senza far nulla per mascherare l'ilarità causatagli da quell'assurda coincidenza. Ah, quanto doveva divertirsi il destino a giocare con le vite degli uomini, per arrivare a connettere telepaticamente due persone poste agli antipodi nella società moderna? Roland non poteva non trovare ironico il fatto che il primo contatto telepatico della donna fosse proprio lui che rappresentava, a tutti gli effetti, la sua nemesi. Quando, dopo qualche minuto, riuscì a placare le sue risa, infine, rispose alla domanda che gli era stata posta. Bhe, Agente Eos... disse, sottolineando con la voce della mente il titolo che ella si era autoimposta ...io sono Roland Deschain. Ma puoi benissimo chiamarmi Roland. Direi che è più comodo... si prese una pausa, giusto di qualche istante, per farsi largo,con tutto il tatto che gli era possibile, tra i pensieri di lei. Non le aveva chiesto il permesso, dunque stava a tutti gli effetti cercando di forzare la sua mente, sebbene stesse agendo con quanta più gentilezza gli fosse possibile; avrebbe potuto chiedere, ma era stato abituato a prendersi ciò che voleva senza chiedere. ...Nalani... sussurrò subito dopo, mentre un mezzo sorriso si dipingeva sulle sue labbra, lieve e quasi impercettibile; era un sorriso che si estendeva ai suoi pensieri, a tal punto che lei avrebbe potuto sentirlo sorridere, così come lo aveva sentito ridere. Con un movimento rapido ed agile, si alzò in piedi, abbandonando il pianoforte, per avvicinarsi ad una delle grandi vetrate che davano sulla città, spalancando senza esitazione alcuna la finestra, lasciando che la fredda brezza invernale potesse colpirlo in pieno viso. Mi trovo nel Maine. Tu? domandò poi, mentre si appoggiava con i gomiti a davanzale, per guardare fuori, verso un panorama molto più interessante di quello che potevano offrire le pareti de bagno in cui lei si trovava, in chissà quale luogo dimenticato da dio.

    eee...ho dato per scontato, anche qui, che Roland potesse avere accesso ad un'informazione così banale e basilare come il nome di Nalani, ma se non dovesse andar bene edito u.u
     
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    ahahah avevo pensato che fosse vestito come nella gif xD
    I'm always ready for o&c ♥ E va tutto benissimo *^*


    Nalani Eos

    24 anni
    sensate
    Agente FBI


    A
    vevo sempre avuto un rapporto particolare con le sorprese: da una parte c'era quel lato curioso del mio carattere che mi portava ad accoglierle di buon grado perché mi stimolavano e mi divertivo ad indovinarne la natura, ma dall'altra parte c'era quella mia indole terribilmente portata per il controllo che mi faceva mal tollerare le sorprese proprio per la loro natura aleatoria e, di conseguenza, fuori dal mio controllo. Ecco, in questo caso scoprire di essere una sensate rientrava tra le sorprese che non mi piacevano. Nonostante alti e bassi, mi piaceva la mia vita, mi piaceva la mia natura di terrestre, non avevo mai coltivato il desiderio di essere qualcos'altro. Stavo bene con me stessa, senza poteri particolari, e non nutrivo questa convinzione solo per il rischio oggettivo che i sensates correvano: non avevo paura di essere braccata, solo che non volevo trovarmi estranei nella mia testa.
    Da sempre poco portata a regalare in giro la mia fiducia, da sempre portata a ricercare i miei spazi, la mia intimità, non volevo condividere niente di me con nessuno. A maggior ragione adesso, dopo Emmet. Avevo bisogno di una pausa dai contatti umani così vicini. Non potevo concentrarmi sul lavoro, dedicarmi ad esso e basta, dimenticandomi di tutto il resto? Non potevo essere un agente federale ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, senza tempo libero? Cosa c'era di così brutto nel mio piano? E invece adesso mi trovavo costretta ad affrontare le conseguenze di questa sorpresa del tutto non richiesta e, soprattutto, per niente gradita. Non volevo avere nessuno nella mia testa e, in questo momento, non ero particolarmente interessata nei confronti della vita di quest'uomo.
    Magari, se questo contatto si fosse verificato quanto meno un anno prima, sarei stata di un umore diverso, sarei stata forse addirittura bendisposta e avrei colto la possibilità che mi veniva offerta di conoscere un nuovo mondo, una nuova realtà. Dopotutto, quante probabilità c'erano che quell'uomo conducesse una vita simile alla mia? Erano estremamente basse, perciò, chiunque egli fosse, mi avrebbe dato la possibilità di conoscere qualcosa di diverso rispetto a ciò a cui ero abituata e questo sarebbe potuto essere positivo per me. Ma non avevo alcuna voglia di affrontare la scoperta di essere una sensate sotto questa luce. Avevo solo voglia di escludere quell'individuo dalla mia mente prima che la connessione si facesse troppo profonda, prima che egli potesse essere messo al corrente di chi io fossi. Avevo detto di essere un agente governativo ed era esattamente ciò che ero, anche se quel titolo non mi identificava appieno. Certo, era un'importante parte di me, forse la più importante considerando il mio attaccamento al lavoro, ma non diceva esattamente chi fosse Nalani. E volevo che la situazione restasse questa: non avevo alcuna voglia che quell'uomo mi conoscesse. Decidevo io chi doveva sapere qualcosa di me, e, soprattutto, cosa doveva sapere di me. Non volevo che potesse avere accesso alle informazioni sul mio conto sulla base di un semplice lancio di dadi del destino. Perché era così che era andata. Era stato il fato, un elemento completamente incontrollabile e per questo non lo sopportavo.
    La mia diffidenza, dunque, si tramutò in insofferenza e astio. Sì, decisamente astio per quell'intrusione.
    Tenevo gli occhi puntati sull'anonimo specchio del bagno, forse perché convinta che se avessi tenuto d'occhio quell'ambiente sarei riuscita a ritrovare il controllo. Durò un rapido istante, ma per un frangente il riflesso dello specchio non rimandò il mio volto, ma quello di un uomo. Lui. Non poteva essere altrimenti, perché avevo chiuso a chiave la porta, quindi non poteva essere entrato nessuno. Quell'immagine mi fornì alcuni indizi sull'identità dell'altro sensate: dai suoi tratti somatici potevo escludere alcune etnie. Approccio da poliziotto, deformazione professionale numero due: stavo cercando di tracciare un profilo dell'uomo senza nemmeno conoscere il suo nome. Era confortante sapere di aver mantenuto il mio sangue freddo anche davanti ad una rivelazione del genere, ma non avevo dubbi che sarei riuscita a spegnere completamente i sentimenti confusi in favore di una più affidabile logica.
    Qual era il grado superiore all'astio? Perché se non avessi deciso di abbracciare la logica e se avessi seguitato ad agire preda delle emozioni, avrei abbandonato l'astio in favore di un sentimento più intenso non appena udii l'uomo ridere.
    «Il mio lavoro ti fa ridere?» domandai con una punta di fastidio. Non era un buon segno, quale persona sana di mente poteva mettersi a ridere davanti ad un pubblico ufficiale? «Oddio, i sensates impazziscono» pensai presagendo il mio futuro. Avrei perso anche io la mia sanità mentale, come quell'uomo? Avevo davanti a me, metaforicamente parlando, il mio futuro? Non seppi se quel pensiero fosse giunto anche a lui o meno, ma anche se lo avesse percepito non mi sarei sentita in imbarazzo: dopotutto era lui che era entrato nella mia testa e quindi non doveva offendersi per ciò che vi trovava dentro. E poi io non ero mai stata diplomatica: dicevo quello che pensavo. Caratteristica che non mi avvantaggiava durante gli interrogatori, perché se sospettavo di un indiziato difficilmente riuscivo a celare la mia impressione e le mie domande mirate erano volte a farlo confessare, ma il mio intuito difficilmente sbagliava, quindi quando mettevo alle strette un sospettato, questo si rivelava davvero colpevole.
    L'uomo poi si presentò, concludendo pronunciando il mio nome. Il mio nome di battesimo che io non gli avevo rivelato. Questo significava che aveva frugato nella mia mente per scoprire quel dettaglio e quella sua azione si collegava ad una delle veloci riflessioni che si erano sovrapposte nella mia testa pochi minuti prima, quando avevo realizzato di essere una sensate. Io non volevo che qualcuno si arrogasse il diritto di fare così. Non gli avevo dato il permesso di conoscere il mio nome e non avrebbe dovuto farlo. Quell'uomo era uno sconosciuto, anche se le nostre menti erano per qualche strana ragione collegate, e gli sconosciuti non mi chiamavano per nome.
    «Signor Deschain andrà benissimo» commentai incrociando le braccia al petto. Aveva sorriso, lo sapevo così come sapevo che dall'altra parte della porta si trovava il mio ufficio, con i miei colleghi completamente inconsapevoli di ciò che mi stava accadendo. Era soddisfatto, Roland Deschain, perché era riuscito a scoprire il mio nome? Perché io non glielo avevo detto, ma lui lo aveva scoperto lo stesso? Ad ogni modo, questo significava che davvero non era alle prime armi e se il mio orgoglio avrebbe preferito che fossimo entrambi inesperti, la logica mi suggeriva che in realtà si trattava di una cosa positiva: significava che poteva recidere il legame, così entrambi saremmo tornati alla nostra vita. Non avevo idea di quale fosse la sua... forse era un musicista? In ogni caso non mi importava, io sarei tornata alla mia vita di sempre, alla mia intimità di sempre e avrei potuto cercare di dimenticare questa spiacevole mattinata.
    Improvvisamente la parete del bagno venne sostituita dalla veduta di un'ampia finestra e la pelle del mio viso venne solleticata da una fresca brezza invernale, non molto differente da quella che avevo percepito uscendo di casa quella mattina. Contemporaneamente a quella proiezione, l'uomo mi rivelò di trovarsi nel Maine. Questo significava che eravamo relativamente vicini: quanto meno ci trovavamo nello stesso Stato. Non sapevo ancora se fosse una cosa buona o meno, ma in quel momento la nostra plausibile vicinanza fisica mi interessava poco, ciò che mi importava era la vicinanza delle nostre menti, vicinanza alla quale ero ben determinata a porre rimedio il prima possibile.
    «Bar Harbor» risposi dunque al sensate, supponendo che egli non avesse bisogno di ulteriori indicazioni per comprendere dove vivessi. E se avessi scoperto che viveva a Bar Harbor? No, il panorama non sembrava lo stesso.
    «Sei un musicista?» domandai ancora. L'attitudine da poliziotto era davvero difficile da scrollarsi di dosso.
     
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    Roland Moreau Deschain

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    Ibrido - Sensate
    Criminale

    I
    n più di un'occasione Roland si era ritrovato a chiedersi come sarebbe stata la sua vita se lui non fosse stato un sensate; gli eventi avrebbero preso una piega diversa? Sarebbe stato un uomo migliore o peggiore? Non aveva la risposte a quelle domande, ma sapeva che senza il suo dono nessuno in casa sua lo avrebbe mai realmente considerato: aveva capito ormai da anni che i coniugi Moreau si erano presi cura di lui solo perchè era loro dovere farlo, e perchè senza di lui tutto il sangue che avevano sputato in quegli anni sarebbe stato vano e tutto ciò che a fatica avevano conquistato sarebbe stato portato loro via dalla concorrenza. Lo avevano cresciuto affinchè prendesse le redini della famiglia al momento giusto, e 'ibrido trovava particolarmente ironico il fatto che lui fosse stato il fautore di quello spacco avvenuto in famiglia: i seguaci dei Moreau si erano divisi non perchè qualcuno dai piani bassi si era innalzato contro la dittatura di Gustave e Corinne, ma perchè lui, il loro unico erede, si era allontanato dai dettami della famiglia. Era stato uno smacco che avrebbe fatto la storia della malavita Americana, se qualcuno fosse sopravvissuto a quell'assurda lotta tra umani e sussurratori per raccontarlo. Lui, da parte sua, era fiero della scelta che aveva fatto: si era guadagnato la sua libertà e dopo anni di reclusione, aveva infine scelto per sé stesso. Forse non era un eroe o un paladino della giustizia, non era puro di cuore né nobile d'animo, ma non era nemmeno uno spietato assassino: Roland riteneva di essere perfettamente nel mezzo. Non negava certo di essere un opportunista, non lo avrebbe mai fatto: i suoi obbiettivi venivano prima di tutto, lui veniva prima di tutto... e l'assenza di un qualsivoglia legame, non poteva che avvantaggiarlo. Non avrebbe pianto per i suoi uomini o per i suoi cari se fossero morti; se fosse servito a mantenere la sua posizione, Roland avrebbe persino venduto l'anima al Diavolo. Non era tuttavia privo di coscienza: nel corso degli anni gli incidenti di percorso causati dalla morte dei membri della sua cerchia, aveva imparato ad essere caritatevole e compassionevole, ma solamente con pochi eletti. E quei pochi eletti si erano sempre ridotti ai membri della sua cerchia e a pochi altri.

    Avvertiva chiaramente l'impronta ostile che Nalani - questo il nome della donna - stava dando ai suoi pensieri e alle parole che gli rivolgeva, ma cercò di non farci troppo caso e di non ridere eccessivamente a causa di quel particolare: sapeva infatti che se la donna avesse scoperto le sue origini e ciò che faceva per guadagnarsi da vivere, non avrebbe fatto altro che indisporla ulteriormente; e per quanto trovasse divertente quella situazione, prima voleva carpirle qualche informazione in più. Per un fugace istante, Roland proiettò la sua coscienza in quell'altro luogo e vide, di sfuggita, il viso di lei nello specchio, curandosi ben poco delle possibili conseguenze: mostrarsi era un azzardo, ma dubitava fortemente che elle si sarebbe messa a condividere ai quattro venti informazioni sulla sua identità. Se lo avesse fatto, infatti, l'SGRD avrebbe preso anche lei; certo, il fatto che fosse una poliziotta aumentava la probabilità che ella potesse desiderare di appoggiare la causa di quell'associazione, ma quello non era il primo rischio che l'ibrido correva durante la sua vita...e cos'era la vita senza un minimo di rischio? Il mio lavoro ti fa ridere? A quell'affermazione, al risata di Roland non accennò a smorzarsi: era troppo assurdo, troppo per poter essere vero, eppure era così: era in contatto con una poliziotta. In una situazione come la sua, quello sarebbe potuto essere un enorme vantaggio; non subito - indisporla ulteriormente sarebbe stata una pessima mossa dato che avrebbero dovuto condividere quel contatto per il resto delle loro vite - ma forse in un lontano futuro... Oddio, i sensates impazziscono A quella successiva conclusione, Roland rise con ancor più intensità, cercando di tenere lontano dalla mente le immagini di Hikari e Christopher, che avrebbero potuto confermare a Nalani che sì, i sensates talvolta impazzivano... specie se provavano sulla loro pelle due morti senza morire mai davvero. ...diciamo che trovo comica la situazione... rispose criptico, smettendo di ridere, sebbene quel sorriso non stese accennando ad abbandonare le sue labbra. E quando la sentì chiamarlo con il suo cognome fittizio, Roland seppe di averla indispettita; e il suo ghigno si allargò ancor di più. Non era mia intenzione indisporla signorina Eos... le disse, e non era una bugia: non era quella la sua intenzione, ma trovava ancor più divertente l'essere riuscito a far breccia nelle sue difese così in fretta: non gli ci era poi voluto molto per pungerla nel vivo. Quando Nalani gli disse di essere a Bar Harbor, sbattè un paio di volte le palpebre per la sorpresa: non gli era mai capitato di entrare in contatto con altri sensates relativamente vicini a lui: era abituato a considerare i membri della sua cerchia sì come persone, ma persone lontane irraggiungibili, la cui vita poteva a malapena essere sfiorata dalla sua; e sebbene la vita lo avesse smentito in più di un'occasione, non aveva abbandonato quella visione delle cose. Non poteva negare di aver influenzato Christopher e Hikari tanto quanto loro avevano influenzato lui, ma l'idea che non li avrebbe mai incontrati gli aveva sempre dato la possibilità di vedere la vita nel medesimo modo. Tuttavia, da quel giorno, le cose cambiavano: Nalani era, infatti, relativamente vicina a lui, a portata di mano: se solo lo avesse voluto, Roland avrebbe potuto raggiungerla. E, a quell'idea, un sorriso malefico solcò le sue labbra, mentre il suo sguardo rimaneva fisso sull'orizzonte: non era nei suoi piani - non per l'immediato futuro quantomeno - ma sarebbe stato divertente andare a Bar Harbor e bussare alla sua porta, solamente per vedere in diretta la sua espressione a quell'inaspettato contatto. Vi era sempre qualcosa di astratto nel legame tra i sensate che, per quanto concreto e tangibile, non era paragonabile ad un normale rapporto di conoscenza; paradossalmente, pur essendo ad un livello superiore, mancava anch'esso di qualcosa. Era come se il tutto potesse essere completo solamente amalgamando i due tipi di conoscenza, quella mentale e quella fisica, visiva; per i Sussurratori era così. Loro, addirittura, avevano una conoscenza globale; erano collegati ai loro simili sparsi in ogni angolo del globo e loro, i sensate, erano solo un gradino al di sotto. Ma Roland, potendo scegliere, non avrebbe fatto cambio: un conto era cercare di nascondere i propri segreti ad un ridotto numero di persone... un conto era nasconderlo alla popolazione mondiale. Sei un musicista? A quell'ennesima domanda posta con un tono da interrogatorio, Roland si lasciò sfuggire un'altra risata, sebbene più contenuta della precedente. Non vi sono molti musicisti a Portland... e in ogni caso io non sono tra loro... concluse con una punta di malinconia mista a divertimento - pregustava già il momento in cui Nalani sarebbe venuta a sapere della sua vera vita - mentre si allontanava dalla finestra per tornare al pianoforte. Ne sfiorò la superficie con le dita, ancora una volta, prima di sedersi nuovamente sul seggiolino. E' più un hobby... affermò, mentre suonava un unica nota, un do, lasciandola rimbombare nell'aria per poi scemare da sola. Sai cos'è un hobby o sei una di quelle persone che vivono solo per lavorare?<b> le domandò ironicamente, rimanendo poi in attesa di una risposta; e quando la ebbe ricevuta, ricominciò a suonare; era un brano differente dal precedente, ma comunque uno di quelli che Roland preferiva. Sentiva delle voci provenire dal cortile e dai piani inferiori, ma non se ne preoccupò: non aspettava nessuno in particolare per quel giorno e la maggior parte degli affari erano stati già portati a termine; aveva tutto il tempo per dedicarsi a quella nuova conoscenza, che a Nalani piacesse o meno. Le aveva rivelato <i>volontariamente il nome della città in cui si trovava, per saggiarne la reazione, perchè quello gli importava, molto più di altri futili dettagli quali il suo nome e la sua occupazione che, per quanto rilevanti, accendevano solo in minima parte la sua curiosità. Sì, perchè era la psiche delle persone che interessava davvero Roland e moriva dalla voglia di sapere con chi avrebbe condiviso quella connessione mentale di lì ai prossimi anni. Non era un poliziotto ma poco alla volta anche lui stava costruendo un'identikit dell'Agente Eos; ad ogni domanda o reazione di lei, l'ibrido aggiungeva un tassello al puzzle, rendendo il quadro sempre più chiaro, minuto dopo minuto. Entro la fine della mattinata avrebbe avuto abbastanza elementi per decidere il da farsi: mantenere il contatto vivo o cercare di escludere la donna dalla sua mente il più possibile?
     
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    L
    e risposte che mi diede l'uomo non mi soddisfecero affatto. Non avevo mai invidiato questo potere, mai, nemmeno una volta in vita mia avevo voluto possedere un legame psichico con un estraneo. Le uniche persone che avrei tollerato nella mia testa erano mio fratello e mio padre... E forse pure per loro avrei avuto qualche riserba perché, per quanto fossi sempre sincera con i miei familiari, c'erano cose, di me e della mia personalità, che non volevo condividere nemmeno con loro. E dunque, se non avessi accettato di buon grado questo legame né con Georg, né con Gareth, per quale ragione avrei dovuto fare i salti di gioia all'idea che una persona completamente estranea, una persona della quale non sapevo niente, una persona completamente imprevedibile, di cui non possedevo i mezzi per controllarla percepisse i miei pensieri, le mie emozioni? Era quello l'aspetto che meno mi piaceva della natura dei sensate: il suo mancato controllo. Io, invece, dovevo avere tutto sotto controllo, dovevo poter gestire ogni aspetto della mia esistenza, dovevo poterlo calcolare con cura. Perché ci voleva ordine nella vita, essa non poteva essere gestita dal caos.
    Roland... Il signor Deschain (non avevo alcuna intenzione di dargli confidenza solo perché, per un inspiegabile scherzo del destino, le nostre strade si erano incrociate) aveva detto che trovava comica la situazione.
    "Lieta che almeno uno dei due si stia divertendo" pensai, non certa che il pensiero fosse rimasto mio. Beh, se anche lo avesse percepito non avrei potuto farci niente e non ero mai stata una persona particolarmente diplomatica. Avevo già accarezzato questo pensiero, in entrambi i casi quell'uomo lo aveva colto? O, sebbene questo fosse il mio primo contatto telepatico, istintivamente riuscivo a tenere qualche riflessione per me?
    Lasciai cadere successivamente le affermazioni dell'uomo concentrandomi su quella vaga sensazione di stupore... Era, però, una sensazione che non mi apparteneva. "Sei tu?" mi chiesi. Perché ero piuttosto sicura di saper riconoscere una mia reazione da quella di qualcun altro, anche se questa reazione si consumava nella mia mente. E così il signor Deschain era sorpreso. Dalla mia rivelazione di abitare a Bar Harbor? Scoprire che lui, che era apparso così sicuro dal nostro primo sfioramento mentale, fosse rimasto lievemente sorpreso da qualcosa mi fece piacere. Fu una bella rivincita. Prima che potessi formulare qualche pensiero, egli rispose all'ultima domanda che gli rivolsi, rivelandomi di trovarsi a Brunswick. Eravamo a circa tre ore di distanza l'uno dall'altra. L'intero pianeta a disposizione, e noi ci trovavamo a solo tre ore di macchina. Naturale.
    Deschain poi rispose di non essere un musicista e che quella della musica era una sua passione, un suo hobby.
    «So perfettamente cos'è un hobby» replicai incrociando le braccia al petto e puntando gli occhi sulla mia immagine riflessa dallo specchio. «Ma per colpa di certi elementi non ho la possibilità di coltivarli» soggiunsi. Il lavoro era la mia missione, il mio dovere. Credevo fermamente nel potere della legge, nella divisa che indossavo e nei valori che professavo e non sarei stata capace di staccare dalla mia professione per dedicarmi a me, a ciò che mi piaceva. Amavo scalare, e quella poteva considerarsi la mia passione più grande, tuttavia non avrei mai messo l'arrampicata davanti al mio lavoro. Mi ero plasmata per essere un mezzo perfetto attraverso il quale la Legge operava e per essere tale non dovevo concedermi distrazioni. Una volta conquistato quel distintivo, non lo si poteva accantonare sul comodino per ritagliarsi del tempo libero, perché non era previsto alcun tempo libero nella professione che mi ero scelta. Dopotutto, il Male non si fermava mai. C'era sempre qualcuno, da qualche parte, che cedeva all'illegalità, che intraprendeva la strada più facile. Con quella decisione, quella persona non si rendeva conto (o forse sì, non mi interessava calarmi in quella mentalità), quante altre persone ferisse, quanta altra gente soffrisse.
    L'uomo riprese a suonare, aveva cambiato melodia, ma in quel preciso istante non avevo alcuna intenzione di partecipare ad un concerto: avevo il mio lavoro di cui occuparmi e se era anche vero che quella mattina non avevo casi importanti sulla mia scrivania, volevo sbrigare alcune questioni burocratiche. Quindi non mi soffermai su quanto potesse essere piacevole quello che stavo ascoltando: la mia mente verteva su altri pensieri. In particolare, su una di quelle pratiche che avrei dovuto archiviare: Frank Driscoll, il Mattatore. Era un vigilante, un uomo che aveva deciso di elevarsi al disopra della legge per punire la criminalità dilagante della contea. Era stato arrestato un mese fa, ed era ancora in attesa di processo dal momento che era ricoverato in ospedale per le ferite riportate durante l'arresto. Fin qui, non ci sarebbe stato niente di strano, ma iniziando a lavorare sui suoi documenti, avevo trovato qualcosa di inesatto. Lievi contraddizioni, piccole zone d'ombra che rendevano il fascicolo di Driscoll tutt'altro che chiaro. Quindi, in quel momento non avevo alcuna intenzione di prendere parte alle doti da musicista di Deschain: volevo fare luce sul caso del Mattatore.
    Mi massaggiai la tempia sinistra proprio quando percepii la voce di Nathan Parker chiamarmi dietro la porta chiusa.
    "Eos, sei lì da un po'. Tutt-bne?" Trattenni la lingua tra i denti per un istante prima di rispondergli sforzandomi di sorridere: «Tutto a posto, Parker». Spostai nuovamente lo sguardo sullo specchio per rivolgermi a Deschain. «Adesso devo tornare al mio lavoro. Se proprio non possiamo recidere questo legame, cerca di non fare troppo baccano, va bene? Devo concentrarmi» sussurrai, sperando che il mio partner non mi sentisse. Non sapevo in che modo riuscire a parlare al sensate solo mentalmente, senza rischiare di usare anche la mia voce. Realizzai, comunque, che mi sarei dovuta impratichire con questa nuova realtà, avrei dovuto imparare a gestirla, così sarei stata in grado di gestirla.


    Ho immaginato che Nalani potesse cogliere una vaga sensazione di stupore quando ha rivelato a Roland di abitare anche lei nel Maine, ma se avevi altri progetti edito senza problemi ♥

    Eee ringraziamo il Punisher di Daredevil che mi ha ispirato il Mattatore: se vuoi fare che Roland lo conosce o sa cosa gli è capitato, fai pure, io già sto viaggiando su Roland che commenta i metodi investigativi di Nalani e che ovviamente non sta zitto mentre lei cerca di raccogliere le idee ♥
     
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    E
    ra in contatto con Nalani da quanto...meno di un'ora? Eppure, nonostante quel contatto fosse acerbo, non ancora maturo, Roland si sentiva, in un certo senso, già a suo agio, come se quel contatto mentale non fosse altro che un vecchio abito comodo in cui tornare. Probabilmente l'aver aperto la sua mente alle comunicazioni telepatiche in gioventù lo aveva portato ad adattarsi a quelle intrusioni ad una velocità sorprendente; o forse era stato il vivere con un Sussurratore a renderlo così versatile, chi poteva dirlo? Henry gli aveva sempre detto che il suo era un talento naturale, che era nato portato per quei legami psichici e che essere Sensate non voleva sempre dire essere empatici... prova ne era il suo mentore e, probabilmente, la stessa Nalani Eos. Lui, invece, nonostante il suo stile di vita facesse presagire il contrario, sembrava in grado di legarsi senza alcun problema alle menti disperse che vagavano nell'etere prima di stabilire un contatto telepatico. Per quella ragione aveva percepito sin dal primo istante la presenza estranea di Nalani nella sua testa, per quella ragione gli veniva così facile leggerne le emozioni, nonostante fosse la prima volta che le loro menti si sfioravano. Sentì chiaramente la soddisfazione di lei - probabilmente causata dallo stupore che lui aveva provato nello scoprire quanto breve fosse la distanza che li separava e che non aveva cercato di nascondere - e quelle altre piccole sfumature che andarono a colorare la sua anima per il resto della conversazione. So perfettamente cos'è un hobby. Ma per colpa di certi elementi non ho la possibilità di coltivarli a quell'affermazione, Roland ridacchiò di nuovo, prima di rimettersi a suonare, grato ad Hikari per avergli insegnato a suonare, grato a sé stesso per aver assimilato le nozioni necessarie; solo quando le prime note riempirono nuovamente l'aria della sua stanza lì a Brunswick, le rispose. Elementi molesti come me, Signorina Eos? Oppure si riferisce a qualcun altro? domandò ironico mordendosi il labbro per non ridere nuovamente Esiste una cosa chiamata ironia, in ogni caso...E non era mia intenzione indispettirla, quindi le chiedo scusa se il mio comportamento le ha arrecato fastidio aggiunse mellifluo; mentiva, spudoratamente, sapendo di mentire e senza provare a nascondere la cadenza canzonatoria e sbeffeggiante di quella sua ultima affermazione. Ovviamente la stava prendendo in giro e no, non era dispiaciuto per averla infastidita. Non era mai stato un uomo disposto a cambiare per gli altri Roland Deschain, e non avrebbe iniziato perché una ragazzina capricciosa glie lo chiedeva...specie se quella ragazzina si era fatta largo nella sua mente invadendo la sua privacy senza chiedere i permesso. Hai voluto la biciletta? Ora pedala... pensò, trattenendo per sé quel pensiero, pur consapevole del fatto che Nalani, esattamente come lui, non aveva chiesto di essere un Sensate. Nessuno lo chiedeva, nessuno voleva essere lanciato in quel mondo...anzi, forse qualcuno lo voleva ma, puntualmente, non veniva mai accontentato. Eppure lui vedeva in quei contatti qualcosa di superiore, qualcosa di nobile: una condivisione al di là dell'umana comprensione. Ed era per quella ragione che gli esseri umani comuni davano la Caccia a quelli come lui.

    La sua tesi era sempre stata sostenuta dai ripetuti contatti telepatici che aveva avuto: era sempre andato tutto bene e i diverbi erano sempre stati pochi o totalmente inesistenti. C'era stata diffidenza, inizialmente, con Henry, ma nulla di più. Quella era la prima volta nella sua vita che Roland sperimentava un contatto telepatico con un soggetto ostile alla sua presenza... ma trovava l'idea stimolante. Del resto la sua vita era già monotona di per sé ed inserire finalmente una novità non avrebbe potuto fargli che bene; sarebbe stato divertente punzecchiare Nalani, portarla al limite della sopportazione e vedere la sua reazione...il tuto, sempre senza tirare troppo la corda. Del resto, non poteva permettersi che lei venisse scoperta, poiché se l'SGRD la avesse trovata, non avrebbero impiegato molto tempo prima di risalire a lui. Mentre pensava ad un possibile piano d'azione - pur non possedendo ancora abbastanza dati per un piano definitivo - continuò a suonare imperterrito, mentre ascoltava le voci provenienti da quella realtà altra e i successivi pensieri di Nalani. Potrei chiudere le comunicazioni in qualunque momento, ma tu non impareresti mai a fare lo stesso: quindi rimarrò finchè non mi caccerai tu dalla tua testa......cosa che non accadrà molto presto... concluse, rivolto solo a sé stesso, mentre le sue dita correvano sapienti dai tasti bianchi a quelli neri, continuando quella melodia con sicurezza; la sua mente, tuttavia, era lontana dai tasti, lontana da Brunswick: era là, a Bar Habor, con Nalani. L'ultima nota risuonò nella stanza nell'esatto momento in cui Nalani si decise a lasciare il bagno per tornare alle sue mansioni; fu allora che a passo lento Roland tornò sino al suo letto - se qualcuno avesse puntato una telecamera su di lui e una su Nalani si sarebbe accorto del fatto che aveva iniziato a camminare alla stessa velocità di lei, inconsciamente - lasciandosi cadere di schiena sul materasso e rivolgendo gli occhi al soffitto, lasciando che la sua mente potesse estraniarsi per collegarsi a quella di lei. E quando il nome del Mattatore affiorò nella mente di Nalani, non potè fare a meno di mantenersi vigile; del resto, lui conosceva sin troppo bene quel finto vigilante: era un affiliato di suo padre, che si nascondeva dietro all'etichetta di "paladino della giustizia" per colpire gli altri criminali, ostili all'egemonia dei Moreau. Suo padre, infatti, viveva a Portland ma aveva accordi con bande sparse ovunque per il Maine; Brunswick era, in un certo senso, un'oasi di pace, l'unico luogo in cui non era il nome Moreau che si sussurrava nelle strade, sostituito dal suo nuovo cognome: Deschain. Quanto sapeva, Nalani, di tutto ciò? Sarebbe rimasto a guardare per scoprirlo. La avrebbe aiutata? Forse, dipendeva tutto da quanto la situazione avrebbe stimolato la sua mente. Vediamo un pò come lavori... bisbigliò ad alta voce, steso sul suo letto, ma quel bisbiglio, così come la sua rinnovata attenzione non sarebbero di certo passate inosservate alla giovane Sensates; Roland aveva tenuto per sé ciò che sapeva del Mattatore, ma tutto il resto delle sue reazioni ed emozioni erano libere di fluire da lì a Bar Harbor.

    Ahaha nono, va benissimo che Nalani senta qualche emozione di Roland <3 il mio bambino di certo nasconde molte cose ma non può certo omettere tutto u.u E...ho portato un pochinoino avanti la narrazione facendo uscire Nalani dal bagno ma se non va bene edito senza problemi^^ Spero che la ia personalissima visione del Mattatore non sconvolga i tuoi piani, ma anche qui, se serve edito.
     
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    No, no, per la narrazione va benissimo *^* E il Mattatore è diverso da come lo avevo immaginato, ma non c'è problema, mi adatto :shifty:


    Nalani Eos

    24 anni
    sensate
    Agente FBI


    L
    'ironia di Roland non mi piaceva. Un uomo troppo sarcastico era un uomo dal quale si doveva diffidare. Era un uomo capace di indossare una maschera, capace di mentire... forse fin troppo. Non ero completamente estranea all'ironia: la utilizzavo anche io, ma quel tono usato da Deschain non mi piaceva. Il mio istinto mi suggeriva che fosse un uomo ambiguo. Dopotutto, era la legge di Murphy, giusto? Se proprio dovevo scoprirmi sensate, era scontato che la prima persona con la quale avessi instaurato un contatto sarebbe stata una persona molto diversa da me. Tanto per rendere l'idea di cosa mi sarebbe aspettato da qui a... quanto duravano i contatti telepatici? Tutta la vita? O prima o poi si spegnevano? Avrei sempre sentito la voce di quell'uomo nella mia testa? Anche a ottant'anni? "Se lui ci arriva, a ottant'anni" precisò la mia mente. Non sapevo quanti anni avesse, ma mi sembrava piuttosto giovane. Tuttavia se adottava quell'atteggiamento indisponente con tutti, prima o poi avrebbe incontrato persone meno tolleranti della sottoscritta e chi poteva dirlo come si sarebbe concluso un incontro simile? Certo era che se avesse continuato ad utilizzare quel tono ancora con me, forse potevo essere io ad impedirgli di arrivare alla terza età. In fin dei conti, non eravamo nemmeno poi così distanti.
    Ruotai esasperata gli occhi al soffitto udendo quelle scuse affettate, e le lasciai senza risposta. Non mi sembrava proprio il caso di soffermarmi ancora su quella questione: dopotutto pareva che entrambi avessimo due punti di vista ben differenti.
    Mentre cercavo di ritrovare il controllo, di riprendere in mano le redini di quella mattinata, di tornare ad essere me stessa, senza spiacevoli intrusioni nella mia mente, la voce dell'uomo tornò a farsi sentire. «Cos'è, una specie di addestramento?» domandai quasi sprezzante. A Quantico ero stata tra le migliori: essere figlia di Gareth Eos aveva un certo peso e in molti avevano creduto che la mia ammissione fosse imputabile a favori riscossi da parte di mio padre piuttosto che ad una reale mia preparazione. Avevo dunque faticato il doppio per dimostrare a me stessa e ai miei compagni di accademia che io ero nata per essere un agente, che l'unico merito che aveva Gareth era stato quello di avermi trasmesso la sua devozione per il lavoro e la sua abnegazione alla giustizia. Non gli avevo mai chiesto favori, professionalmente parlando, e mai lo avrei fatto. Inoltre, credevo che mio padre non me ne avrebbe elargiti: sebbene mi volesse bene, non sarebbe mai caduto nelle raccomandazioni.
    Ad ogni modo, non avevo mai avuto problemi quando si trattava di padroneggiare una nuova nozione e dunque credevo che avrei imparato presto a gestire anche questa faccenda dell'essere una sensate. Almeno avevo la giusta motivazione: prima avessi imparato a chiudere la mia mente, prima quell'uomo se ne sarebbe andato. Uscito dalla mia vita per sempre e io avrei potuto dimenticarmi della sua esistenza. «O è una sfida?» soggiunsi dopo un breve istante. Anche in questo caso, comunque, l'avrei raccolta senza difficoltà: le sfide erano sempre state un mio punto debole dal momento che ero incapace di resistervi. Se qualcuno scendeva in competizione con me, non ero in grado di non raccogliere il guanto. Non tanto perché volessi sempre primeggiare, quanto più perché credevo di aver sviluppato una certa dipendenza nei confronti dell'adrenalina. Gareggiare mi stimolava, mi metteva alla prova ed io adoravo mettermi alla prova. Volevo alzare sempre di più l'asticella, superare il mio limite, migliorarmi. Era sempre soddisfacente riuscire a superare qualcosa che, prima, si credeva insormontabile.
    Mi resi conto solo in seguito di aver adottato un tono divertito, e mi affrettai a cancellarlo: non potevo rivolgermi a quel modo a Deschain, dovevo mantenere le giuste distanze. Rivolgergli un pensiero divertito significava instaurare con lui una sorta di blanda complicità e la complicità rientrava tra le cose che desideravo evitare. Mentre raggiungevo la mia postazione, ebbi quasi l'impressione di essere tornata sola, come se la coscienza dell'uomo si fosse tacitata, ma sapevo che era ancora , quasi fosse in agguato. Anche se non me l'avesse detto chiaramente, lo avrei percepito. Lo sentivo e non mi piaceva. Gonfiai il petto in un respiro profondo mentre rassicuravo il mio partner e prendevo posto alla mia scrivania, recuperando il fascicolo Driscoll per leggerlo l'ennesima volta. Ormai lo sapevo a memoria e potevo completare le frasi dei rapporti anche senza avere i documenti sotto mano, tuttavia non avrei smesso di indagare fino a quando qualcosa non fosse saltato fuori. C'era qualcosa che non quadrava, e non era solo il mio istinto a suggerirmelo: anche nelle prove avevo notato delle lacune. Improvvisamente, l'attenzione di Deschain si riaccese e percepii un suo nuovo pensiero.
    Dovevo confessare che mi infastidiva che l'uomo si fosse approcciato a me proprio quando stavo lavorando su questo caso: Frank Driscoll era quasi spacciato, non si trovavano prove, come se fosse stato sommerso da una palude. Sarebbe stato difficile fare luce sulla sua situazione e non sapevo nemmeno se vi sarei riuscita prima dell'inizio del processo. Non volevo che quell'uomo mi vedesse fallire. "Dunque non fallirai" mi ammonii.
    Rilessi per l'ennesima volta i vari verbali e, all'improvviso, la mia attenzione cadde su un nome: era quello di un infermiere che aveva prestato soccorso a Driscoll due anni e mezzo prima. Dove avevo già letto quel nome? Era stato rapinato tre settimane fa. Il Bureau era stato coinvolto solo per errore e difatti poi il suo caso era stato passato alla polizia locale, ma avevo ratificato io il passaggio delle consegne e dunque quel nome mi doveva essere rimasto in mente. Abitava in un'immensa villa... troppo dispendiosa per appartenere ad un infermiere. Molti dei buchi che avevo trovato si riconducevano ad un incidente che aveva coinvolto Driscoll prima che decidesse di divenire un vigilante. Dovevo parlare con quell'infermiere. Mi annotai il suo indirizzo e comunicai a Parker le mie intenzioni. Si offrì di accompagnarmi, ma lo dissuasi. Generalmente dovevamo sempre spostarci in coppia, più per una questione di sicurezza, ma per quanto mi riguardava la presenza di Roland Deschain bastava e avanzava, non volevo avere altre persone attorno.
    «Credo sia superfluo rimarcare il fatto che tutto quello che sentirai è strettamente confidenziale» commentai mentre digitavo l'indirizzo di Shawn, l'infermiere, sul navigatore che calcolò un viaggio di una ventina di minuti. «Non dovrà uscire niente da qui, chiaro? Anzi, potresti chiudere il canale per un'oretta» suggerii infine, ben sapendo che la mia richiesta sarebbe rimasta inascoltata.
    Dopo che ebbi mostrato il mio distintivo alla telecamera che sorvegliava il cancello elettrico della villa, mi fu consentito l'accesso e parcheggiai nel vialetto, davanti all'ingresso principale. "Una sistemazione decisamente fuori dalla sua portata" pensai mentre attendevo di essere ricevuta.
    Shawn mi ricevette in accappatoio, scusandosi per il suo abbigliamento. Lo avevo interrotto durante la sua quotidiana nuotata, così mi disse mentre allungava verso di me una mano.
    «Vorrei parlarle di un suo vecchio paziente, Frak Driscoll, lo ricorda?» domandai superati i preamboli di rito. L'infermiere sbiancò, letteralmente.


    Ok, mi fermo qui altrimenti verrebbe un post lunghissimo xD L'idea sarebbe questa: Frank era un soldato, è rimasto ferito (gli hanno sparato in testa) e ricoverato in gravissime condizioni nell'ospedale di Shawn. Lì è stato scelto da un corpo di mercenari che ha pagato Shawn e altri medici affinché dichiarassero che fosse morto, mentre, in realtà, lo hanno recuperato loro per fargli il lavaggio del cervello e renderlo una macchina da guerra u_u Quindi volendo il padre di Roland può averlo assunto, oppure esserci proprio il padre di Roland dietro questa associazione di mercenari, come preferisci ♥ Pensavo che, considerando quanto Shawn sappia, sia tenuto costantemente sotto controllo (magari dal personale della casa), quiiiindi, ora che hanno visto un agente dell'FBI alla sua porta, qualcuno gli spara per impedirgli di parlare :shifty: Roland potrebbe notare questo sicario e avvisare Nalani :shifty: Sempre se l'idea è di tuo gusto, ovviamente ♥
     
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    *si sente in colpa per averle rovinato i piani*


    Roland Moreau Deschain

    28 anni
    Ibrido - Sensate
    Criminale

    B
    ussarono alla porta; non a quella di Nalani un'altra volta, no: alla sua. Con uno sbuffo, senza chiudere la connessione mentale, Roland andò alla porta e la aprì, ritrovandosi faccia a faccia con uno dei suoi uomini che, silenzioso, gli porse delle buste: gli ingressi di quel mese. I bilanci con il fatturato mensile venivano sempre consegnati a lui prima di essere archiviati, poichè l'ibrido desiderava consultarli nella loro interezza, per essere sicuro che non vi fossero ammanchi e che tutto fosse andato come previsto. Pigramente, si sedette sul letto, disponendo le varie buste in ordine davanti a sé; in un'altro momento avrebbe iniziato ad aprirle una alla volta per iniziare i controlli ma in quel momento, aveva altro per la testa. Cos'è, una specie di addestramento? La voce di Nalani giunse sino a lui, e gli parve quasi ricco di sdegno, con un sospiro, l'uomo si lasciò ricadere con la schiena sul letto, distendendo le gambe e portando entrambe le mani dietro la testa. Se vuoi chiamarlo così... rispose laconico O è una sfida? Spostando una mano sino a stringersi il collo del naso , Roland sospirò di nuovo, più rumorosamente Pensala come vuoi; io lo faccio per te, ma sono seriamente tentato di riattaccare la cornetta rispose, acido ma sincero, prima di tacere. Ingrata pensò soffocando uno sbuffo: le aveva già fatto sapere troppo circa il suo stato d'animo. Ma, del resto, come avrebbe potuto nasconderglielo? Lei era solo una matricola, ma anche se lui non avesse parlato, non avrebbe potuto non percepire il suo fastidio tramite le emozioni: no, quello le sarebbe arrivato comunque. Poteva fingere, ma solo fino ad un certo punto, quindi tanto valeva essere sincero. Anche perchè non aveva a che fare con una donna qualunque, ma con un'agente dell'FBI, il che rendeva il tutto ancora più complicato... perchè Nalani avrebbe potuto capire molto di più rispetto ad un normale sensates, anche se lui avesse cercato di ridurre al minimo le comunicazioni. Per quella ragione preferiva abituarsi sin da subito all'idea che, ancora una volta, avrebbe dovuto condividere la sua esistenza con qualcuno... qualcuno che, a differenza del piccolo Christopher o della solare Hikari, sapeva il fatto suo. E non ti sopporta... si disse, lasciandosi sfuggire un sorriso divertito. Quella era una novità, per lui. Henry, la prima persona con cui era entrato in contatto, era diventato per lui come un padre e nonostante le differenze caratteriali, i due erano sempre andati d'accordo. Quanto ad Hikari e Christopher, entrambi lo avevano stimato, adorato e, a modo loro, amato. Christopher, in particolare, era quello che più aveva segnato Roland, poichè il bambino lo aveva trattato, seppur lontano miglia e miglia, come un padre e col passare del tempo, Roland si era abituato a quella sensazione. Custodiva il ricordo di quell'ultimo legame con un altro sensates con morbosa gelosia ma anche con dolore... era una gioia e nel contempo una sofferenza, il ricordo di Christopher. Era gioia poichè quel ragazzino gli aveva voluto bene, ma era anche dolore perchè lui non aveva potuto far niente per salvarlo. La sua morte lo aveva reso più docile, aveva scheggiato quella barriera di crudeltà che la sua vita da malavitoso aveva eretto attorno al suo animo, tanto quanto la morte di Hikari lo aveva portato a distruggere ogni legame con i Moreau. Quelli erano i ricordi che Roland aveva della sua cerchia... ma l'esperienza che stava vivendo si prospettava completamente differente. Ma avrebbe superato anche quella, come sempre aveva fatto. Senza dire altro, rimase in ascolto dei pensieri di Nalani, osservandola al lavoro senza tuttavia interferire: del resto il caso gli interessava e sapeva che, meno interferiva, più probabilità vi erano per lui di rimanere in ascolto. Del resto, se avesse fatto innervosire ulteriormente la donna, vi era la possibilità che, anche solo inconsapevolmente, ella riuscisse ad estrometterlo, interrompendo il legame. Quando poi la donna decise di andare di persona, non accompagnata, a casa di quell'infermiere, Roland aumentò ancor di più la sua attenzione: se prima aveva ascoltato il tutto con superficialità, mentre dava una rapida occhiata alle carte che gli erano state portate dai suoi uomini poco prima, in quel momento era tornato a stendersi sul letto e stava ascoltando ed osservando l'agente dell'FBI mentre saliva in macchina, diretta alla Villa di Shawn. Credo sia superfluo rimarcare il fatto che tutto quello che sentirai è strettamente confidenziale. Non dovrà uscire niente da qui, chiaro? Anzi, potresti chiudere il canale per un'oretta. Non ho alcun interesse nel diffondere queste informazioni le rispose asciutto, prima di tacere, in attesa che l'auto li portasse entrambi a destinazione e, del resto, era la verità. Se anche avesse avuto degli interessi economici nel vedere quelle informazioni, avebbe rivelato la sua natura di Sensates, cosa che lo avrebbe inevitabilmente messo nei guai. L'unica persona a cui avrebbe potuto passare quelle informazioni senza passare dei guai era suo padre... e una cosa simile era fuori discussione.

    Quando Nalani giunse a destinazione, Roland cercò di stabilizzare la sua coscienza sulla giusta frequenza, senza tuttavia risultare eccessivamente invadente: sarebbe stato problematico se, mentre interrogava Shawn, Nalani avesse iniziato a vedere il soffitto del suo appartamento anzichè l'uomo che aveva davanti. Vorrei parlarle di un suo vecchio paziente, Frank Driscoll, lo ricorda?
    Si che se lo ricorda... pensò Roland vedendo la faccia dell'infermiere sbiancare di colpo. Si morse con violenza il labbro fino a farlo sanguinare; il sapore ferroso del sangue raggiunse in breve le sue papille gustative, portandolo a digrignare i denti. Quella situazione non gli piaceva neanche un pò e nonostante non fosse lui sul campo, davanti all'infermiere, non poteva non sentirsi coinvolto...e non solo perchè in quel momento stava vivendo il tutto attraverso gli occhi di Nalani. No, vi era molto di più. Il fatto che suo padre fosse in qualche modo coinvolto con quella faccenda - Roland non sapeva quanto, ma era certo che suo padre lo era - lo rendeva nervoso; il fatto che di mezzo ci fosse qualcuno della sua cerchia, aumentava il so nervosismo, perchè quella era una situazione pericolosa... e lui non aveva intenzione di sorbirsi l'ennesima morte di uno dei suoi. Certo, Nalani Eos era un'agente dell'FBI, cosa che Christopher e Hikari non erano stati, ma tutto ciò non lo tranquillizzava. Avrebbe potuto interrompere il contatto e tornare ai suoi affari, ma non era così vigliacco da voltare le spalle ad un membro della sua cerchia: aveva un codice d'onore anche lui. E poco gli importava se Nalani Eos era membro di quella cerchia da meno di ventiquattro ore, non gli interessava se la donna gli era apertamente ostile: aveva sempre ritenuto il legame tra Sensates qualcosa di superiore, di sacro e anche se fossero arrivati ad odiarsi e non sopportarsi, anche se i loro rapporti telepatici si fossero ridotti al minimo, non avrebbero potuto cancellare la realtà delle cose. Di conseguenza, Roland Deschain non poteva voltare le spalle ad un membro della sua cerchia per nessuna ragione al mondo. Nuovamente si morse il labbro inferiore, cercando di non trasmettere quell'impulso al corpo di Nalani; gli era difficile tenere la sua coscienza affacciata sul mondo di Bar Harbor senza interferire eccessivamente con la volontà e i movimenti dell'altra sensates e senza proiettare la sua coscienza accanto a lei; così strinse con violenza le coperte del suo letto, cercando di concentrare tutti i suoi sensi sulla sua stanza, ad eccezione della vista: se avesse mantenuto solo quel senso escluso, forse sarebbe riuscito a non invadere troppo la mente di Nalani. So che mi hai chiesto di chiudere il canale ma questa faccenda puzza, e non poco. Guarda quel maggiordomo: sta spolverando quello stesso scaffale da quando sei arrivata... con prepotenza Roland fece sentire la sua voce nella mente di Nalani. Aveva scorto il maggiordomo ( il cameriere, chi poteva dirlo) di Shawn attraverso gli occhi di lei fermarsi nel grande atrio dell'abitazione nel momento esatto in cui la donna si era fatta vedere, abbastanza vicino da udire la conversazione, abbastanza lontano da non dare nell'occhio. E la situazione iniziava a puzzargli sempre di più. Sordo ad eventuali sue proteste per quell'intromissione, continuando a tenere d'occhio la situazione con gli occhi di lei. Poi, con la coda dell'occhio, la scorse: un'ombra alla finestra del secondo piano, che era semi-aperta. Il grande complesso in cui abitava Shawn aveva un corpo principale e uno secondario, che girava sul lato destro di novanta gradi, dando alla villa una forma di "L"; ed era su una delle finestre del lato corto, quello sulla destra, che Roland aveva scorto l'ombra. Un'orribile sensazione gli chiuse lo stomaco e, senza rendersene conto, si ritrovò ad urlare, sia a voce alta, nella sua stanza a Brunswick, sia nella testa di Nalani. CECCHINO! CECCHINO ALLA TUA DESTRA! urlò, ritrovandosi a stringere con più forza il lenzuolo del suo letto e a prendere una profonda boccata d'aria Quarta finestra da sinistra, secondo piano aggiunse, sopprimendo l'istinto di spingerla a voltare il capo in quella direzione, mentre si malediva per essere lì solo come coscienza fisica e non in carne ed ossa. Aveva giurato di abbattere l'impero di suo padre e quegli uomini centravano in qualche modo con Gustave Moreau, anche se l'ibrido non sapeva ancora quanto; e lui non aveva intenzione di veder morire un altro membro della sua cerchia per mano loro.

    Ho cercato di non correre troppo con la narrazione per non rovinarti i piani u.u Ma se qualcosa non va dimmelo che edito.E... niente, per ora nessuno spara, lascio a te il resto xD Per quanto riguarda quanto centra Gustav Moreau con tutto questo...mi riserbo il diritto di decidere in seguito (a seconda di ciò che potrebbe servire per la storyline del/dei pg xD Se per te non è un problema <3)
     
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    È assolutamente perfetto; non ci sono problemi per il coinvolgimento di Gustav: al momento a Nalani interessa solo far luce su Frank ♥ E non sentirti in colpa ♥


    Nalani Eos

    24 anni
    sensate
    Agente FBI


    "
    Magari" commentai tra me e me quando il signor Deschain minacciò di riagganciare la cornetta. La natura avrebbe dovuto impedire che un agente dell'FBI diventasse un sensate. Ed era una fortuna che non appartenessi ad un programma di infiltramento, perché altrimenti la situazione sarebbe stata ben più grave. Prendevo parte ad operazioni in qualità di direttrice delle stesse, ma non operavo come infiltrata. Talvolta, tuttavia, era capitato che per aiutare un collega avessi agito sotto copertura, ma si era trattato solo di apparizioni fulminee, niente di eccessivamente costruito. Da quando ero stata trasferita nel Maine, in verità, le occasioni per agire da infiltrata erano decisamente minori. Il che mi permetteva di dedicarmi alla parte che preferivo del mio lavoro: prediligevo, infatti, impersonare il braccio saldo della legge in maniera diretta, onesta, piuttosto che mischiarmi ai fuorilegge per ingannarli e farmi rivelare i loro intenti. Sebbene l'addestramento a Quantico mi avesse preparato per ogni eventualità, non potevo negare quale fosse il campo che mi riuscisse meglio, e coordinare le operazioni dall'esterno era il mio talento nascosto. Ero abile nel fronteggiare gli avversari a viso duro, parlare con chiarezza e spiegare come stessero le cose. Paul Briggs, un esperto di missioni sotto copertura, era il mio esatto opposto: sembrava quasi che si divertisse a fingere di essere un trafficante d'armi o uno spacciatore di droga. E quando aveva chiesto il mio aiuto, ricordandosi di me da Quantico, quasi non avevo creduto alle mie orecchie. Eravamo sempre stati agli antipodi e pareva quasi assurdo che entrambi perseguissimo il medesimo fine, ma l'operazione era andata a buon fine anche se a gestirla erano state due personalità differenti come noi. Stavo ripensando a quell'esperienza come infiltrata a fianco di Briggs mentre entravo nell'immensa villa di Shawn. Il mio collega, trasferito in California dopo la nostra missione in comune a Washington, non avrebbe dichiarato la sua appartenenza alle forze dell'ordine. Avrebbe indossato una maschera, avrebbe finto di essere un criminale. Conoscendolo, credevo che avrebbe avuto addirittura la faccia tosta di azzardare, di puntare al massimo e di fingersi mandato da chi aveva dato a Shawn tutti quei soldi. Forse quella tattica avrebbe dato i suoi frutti, forse l'infermiere sarebbe stato meno reticente a parlargli e avrebbe rivelato ciò che desideravo sapere, ma quella tattica avrebbe reso inammissibili in tribunale le prove raccolte. Agire sotto copertura senza un mandato, infatti, rendeva eventuali indizi o confessioni recuperate inutilizzabili innanzi ad un giudice. Preferivo quindi la via dell'onestà e magari farmi rivelare di meno, ma vedere in che modo quell'infermiere si approcciava alle forze dell'ordine mi avrebbe dato comunque un indizio: se non avesse avuto niente da nascondere, non si sarebbe nemmeno preoccupato.
    Roland mi rassicurò sulla sua riservatezza... in modo un po' criptico, ma il senso delle sue parole era quello. Non sapevo se credergli o meno, ma, per il bene della missione, decisi di passarci sopra e di fingere che mi fidavo. Non volevo incaponirmi su quella questione e perdere l'occasione di interrogare Shawn e di proseguire con le mie indagini. C'era un uomo sotto processo e c'era qualcosa che non andava in quel processo, non potevo perdere tempo. Ritardare di un giorno significava avvicinare Driscoll al'ergastolo. Quanto meno in Maine non c'era la pena di morte, ma niente avrebbe impedito di spostare la sede del processo in un altro Stato ed allora quell'uomo sarebbe stato condannato alla pena capitale. Mi reputavo un'arma a servizio della Giustizia e non avrei potuto tollerare il pensiero di essere coinvolta in qualcosa di ingiusto. Avevo i mezzi per intervenire, dunque dovevo farlo.
    «Non so chi sia, mi dispiace... Ho avuto così tanti pazienti...» balbettò l'infermiere. Anche se non fossi stata addestrata avrei capito che mi stava mentendo: sfuggiva al mio sguardo e quando si sforzava di guardarmi negli occhi si percepiva ancora più palpabile il suo disagio. Rimasi in silenzio, lasciando che esso, pesante, calasse su di noi. Sapeva che non gli credevo, ma gli lasciavo il tempo di riflettere. «Sa che mentire ad un agente federale è reato?» domandai quasi indifferente. Se quell'uomo si spaventava così facilmente, forse sarebbe bastato esercitare un po' di pressione per avere le mie risposte. Shawn assottigliò le labbra. Sembrava quasi disposto a mangiarsele pur di non lasciarsi sfuggire niente, ma la voce del signor Deschain mi distrasse dal mio interrogatorio. Se ne era stato così buono all'inizio, che mi ero dimenticata della sua presenza. O forse c'era sempre stata, ma ero così assorbita dalle indagini che non vi avevo fatto più caso. Di certo non mi ero abituata a lui, perché dubitavo che sarei mai riuscita ad abituarmi a spartire i miei pensieri con un'altra persona.
    «L'ho notato» risposi al commento di Deschain senza rivolgere lo sguardo all'uomo a servizio. C'era davvero qualcosa di grosso in gioco, qualcosa che non mi piaceva. Non avevo notato, però, il cecchino appostato fuori e quando Roland urlò nella mia mente, istintivamente estrassi la pistola dalla fondina e spinsi Shawn a terra. Era il mio unico aggancio e non avevo alcuna intenzione di perderlo. Portai l'infermiere dietro una parete che probabilmente dava l'accesso al soggiorno e con un braccio lo tenni incollato al muro mentre sentivo i primi spari colpire il nostro nascondiglio.
    «Mi ammazzerà, mi ammazzerà, mi ammazzerà» stava ripetendo l'infermiere con la voce rotta dal pianto. Allontanai il braccio dal suo petto solo per impugnare la pistola a due mani e mi rivolsi verso di lui: «Fai quello che ti dico e andrà bene, d'accordo?» Non seppi se avesse davvero capito, ma notai un impercettibile segno d'assenso con il capo, dunque immaginavo che, forse, tra i federali e il cecchino preferisse i primi.
    Avevo un cecchino armato in un'ottima posizione di tiro, mentre io ero in possesso solo della mia pistola d'ordinanza e di un testimone che aveva un bel bersaglio rosso appuntato sulla schiena. La priorità era, ovviamente, salvare Shawn. Non importava come, ma il fatto che qualcuno volesse ucciderlo significava che sapeva qualcosa, e qualsiasi cosa fosse, io volevo esserne messa a conoscenza. Sfortunatamente l'infermiere mi sembrava decisamente sotto shock, dunque era impossibile sperare in lui per un aiuto. E anche se avessi chiamato i rinforzi non ero certa che sarebbero arrivati in tempo utile. Tuttavia non ero completamente sola. Roteando gli occhi al soffitto mi rivolsi all'unico membro della mia Cerchia: «Vedi qualcun altro oltre al cecchino? Dov'è il maggiordomo?» La mia visuale era terribilmente scarsa e il silenzio che era piombato dopo la prima raffica di spari mi impensieriva. Probabilmente si stavano armando, forse stavano cercando una traiettoria migliore. In ogni caso dovevo andarmene da quella villa. Dovevo tornare alla macchina, ammesso che non le avessero perforato le gomme, e portare con me Shawn.
    «Tanto vale che muoia qui: se non mi ammazza adesso, manderà qualcuno in prigione.» Shawn intanto farneticava, tuttavia le sue parole non mi sembravano completamente sbagliate. Forse chi vi era dietro a tutto aveva agganci anche tra le forze dell'ordine e considerando che l'infermiere era l'unico testimone, eliminato lui il caso Driscoll non avrebbe subito impedimenti. Mi fidavo del mio partner, l'agente Parker, ma era solo un uomo in un ambiente la cui corruzione poteva fare strada. Avevo dunque bisogno di un rifugio dove nascondere Shawn in attesa di preparare gli incartamenti per il programma di protezione testimone... naturalmente, questo, se se lo fosse meritato. Avrebbe dovuto darmi qualcosa per guadagnarsi la protezione dell'FBI.
    «Non morirai. Da che parte per la tua auto? Temo che la mia sia inutilizzabile e non possiamo rispondere al fuoco: dobbiamo andarcene da qui» replicai in un sussurro alle parole dell'infermiere mentre sentii il suono inconfondibile di un colpo che veniva caricato. Mi sarebbe stato utile chiedere a Deschain ulteriori dettagli su ciò che riusciva a scorgere di quella situazione, ma detestavo l'idea di domandargli aiuto: non volevo ammettere che, sì, essere una sensate in quell'istante avrebbe potuto rivelarsi particolarmente utile. Certo era che non dipendeva solo la mia vita dalle mie scelte, ma anche quelle di Shawn e di Driscoll.
     
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    Roland Moreau Deschain

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    ella sua vita, Roland non aveva mai avuto pace: sin da bambino era stato proiettato in uno scenario di morte e di guerra, nonostante la minaccia dei Sussurratori in America fosse quasi inesistente. A differenza dell'europa, lì dove la guerra si combatteva in molte città e nelle zone disabitate, lì dove il virus dilagava e mieteva vittime ad ogni angolo obbligando le persone a richiudersi in quarantena, l'America sembrava un'oasi sicura. La maggior parte delle grandi città era ancora in piedi e vi erano i governi militari ad occuparsi di mantenere l'ordine. Ma questo non voleva dire che non si combattesse ogni giorno per le strade. Le disuguaglianze sociali erano nette, marcate: chi era vicino ai membri dell'esercito o ai pochi politici rimasti in città godeva di ogni bene e lusso, mentre il resto della popolazione faceva la fame. Lui lo vedeva ogni giorno: gli uomini a cui offriva un alloggio nella sua struttura erano per lo più persone disperate che necessitavano di un tetto sotto cui stare. Qualsiasi cosa, pur di avere salvezza, un posto dove potersi sentire al sicuro. Perchè questo offriva l'ibrido: protezione, sicurezza. Nessuno poteva avvicinarsi a coloro che occupavano le stanze date da lui in affitto, poichè solo a lui spettava riscuotere in caso di qualche mancanza nei suoi confronti, non poteva rischiare che qualcuno morisse tra quelle quattro mura. Come pagare l'affitto, dipendeva da persona a persona: qualcuno vendeva informazioni, qualcun altro beni materiali, altri ancora potevano permettersi di pagare in contanti. I più disperati, vendevano loro stessi, si mettevano al servizio del malavitoso per qualunque cosa pur di avere un pasto caldo e un letto. I morti che camminano, così li chiamava Roland, perchè non duravano mai a lungo: finivano uccisi da un'overdose o da una pallottola in testa prima ancora che lui potesse affidargli una missione seria, concreta. Quelli che ce la facevano - pochi, invero - si guadagnavano il rispetto dell'ibrido che iniziava anche a pagarli se gli fornivano le giuste notizie o se portavano a termine i giusti scambi commerciali. I suoi migliori alleati, in ogni caso, erano i bambini: piccoli, invisibili, sgattaiolavano dove un adulto mai sarebbe riuscito ad arrivare. Piazzare esplosivi, rubare, avvelenare del cibo, ascoltare non visti, servivano a questo e sebbene Roland non amasse lordare delle anime così giovani ed innocenti,a volte non poteva farne a meno. Quando si presentavano orfani alla sua porta o accompagnati da una madre malata e inferma, non aveva altra scelta. A volte li aiutava per un pò, senza chiedere in cambio nulla, ma non poteva fare la carità in eterno a tutti i poveracci di Brunswick: erano troppi. Così, alla fine, l'ibrido salvava forse il corpo di quelle persone, ma di certo non la loro anima. Del resto, non era forse lui il primo ad essersi smarrito nell'oscurità?

    Aveva perso ogni possibilità di redenzione anni addietro, lo sapeva. La aveva avuta a portata di mano ed era scivolata via; persa quella, Roland non aveva più trovato la pace, nemmeno la connessione con Christopher. Aver visto che esisteva una possibilità di redenzione avrebbe dovuto spingerlo a cercarla, ma Roland aveva fatto l'esatto opposto: si era lasciato andare, aveva abbracciato l'abisso, convinto che nessun'altra occasione gli si sarebbe presentata per far affiorare il meglio di sé, quella luce che ancora nascondeva in fondo alla sua anima. Parigi gli aveva mostrato la via, ma Roland l'aveva smarrita:non appena la sua mano aveva chiuso la portiera del taxi, ogni speranza era morta. A che pro aggrapparsi a qualche ora di conforto? Quel lasso di tempo non avrebbe fatto altro che gettare sale sulle ferite. Avrebbe potuto persino credere che si fosse trattato di un miraggio, ma quel pensiero non lo aveva mai sfiorato. Nessuna allucinazione, nessun sogno di una notte di mezza estate: solo una realtà troppo assurda per essere creduta, troppo pura per essere sciupata da ciò che era accaduto in quegli anni. L'ibrido se ne era quasi dimenticato. No, non dimenticato, non avrebbe mai potuto dimenticare quelle ore, ma aveva archiviato quei giorni andati in un angolo nascosto della sua mente, lontano da tutto ciò che era il suo presente, per evitare di intaccare la purezza di quel ricordo con la melma in cui affondava quotidianamente e che non riusciva a lavarsi di dosso. Al contrario, come le sabbie mobili l'oscurità lo trascinava sempre più in basso.

    Ma non era quello il momento per focalizzarsi sui ricordi, non quando qualcun altro poteva avervi accesso: non desiderava mettere nei guai sé stesso o qualcuno che gli era caro. Così, Roland cercò di concentrarsi sul "qui ed ora" e le carte che gli erano state portate avrebbero forse potuto aiutarlo un pò mentre l'agente dell'FBI che era nella sua testa cercava di estrapolare qualche informazione a Shawn con il classico "Sa che mentire ad un agente federale è reato?" Era evidente che la donna vivesse in una piccola oasi paradisiaca, lontana dalle brutalità che vi erano in città come Brunswick. Roland aveva perso il conto delle volte in cui, nella sua vita, aveva mentito ad un agente federale: in fondo, poteva permetterselo. In gioventù aveva avuto le spalle coperte dal suo cognome e dalla nomea del padre, dalla scia di terrore che i Moreau lasciavano attorno a loro; da quando si era trasferito a Brunswick era la sua influenza a renderlo intoccabile. Certo, qualcuno ai piani alti avrebbe preferito eliminarlo, ma molti alti ufficiali dell'esercito non erano dello stesso parere, dunque Roland non si era mai sentito obbligato a rispondere con onestà a quei rari interrogatori a cui era stato sottoposto. Si vantava, in ogni caso, di non essere mai finito in centrale, nemmeno da ragazzino: se gli agenti lo interrogavano lo facevano sempre come persona informata sui fatti e niente più. In quelle ancor più rare occasioni in cui era rientrato tra i sospettati, era riuscito a cavarsela senza dover ricorrere alla sua influenza sugli uomini di potere ma, se fosse stato necessario, non avrebbe esitato a farlo. E forse stava perdendo la sua umanità, ma l'umanità era arrivata alla fine del mondo; vivevano su un pianeta in guerra e dovevano sopravvivere: l'oscurità era tutto ciò che rimaneva alle persone per andare avanti. La nobiltà d'animo non pagava praticamente mai in uno scenario apocalittico come quello in cui versava la Terra, nemmeno nelle grandi città ancora civilizzate, poichè anzichè andare avanti il tempo era tornato indietro. Possedevano ancora aerei e navi da carico ma i viaggi erano ridotti all'osso: troppo costoso spostarsi per i continenti con assiduità, poichè a causa dei Sussurratori il petrolio e gli altri combustibili erano difficili da reperire e le scorte si andavano via via esaurendo. Fu proprio mentre Nalani interrogava l'infermiere, che Roland sentì quell'orribile sensazione di presagio, che lo portò a guardarsi attorno quanto bastava per scorgere il cecchino.

    Le sue grida d'allarme, richiamarono prontamente non solo l'attenzione della Sensate, ma anche degli uomini dello stesso Roland, come gli confermò l'insistente bussare alla porta e le concitate richieste di spiegazioni da parte dei suoi uomini di turno che, come minimo, avrebbero buttato giù la porta se non fosse intervenuto. Tuttavia, il sensate non si alzò dal letto per andare ad aprire la porta e rassicurare le sue guardie: urlò dal letto, dalla posizione in cui si trovava, così da non perdere eccessivo contatto con Nalani. La situazione poteva degenerare da un momento all'altro, era già degenerata, dunque se voleva aiutarla non poteva permettersi distrazioni. Gli spari gli sembravano quasi indirizzati verso di lui, i singhiozzi di Shawn a pochi millimetri dal suo orecchio, quando in realtà lui era al sicuro, a diversi chilometri da quella sparatoria. Ma, nel contempo, era lì: una bella seccatura. E strano fu, per Roland, sentirsi porre una domanda dal nuovo membro della sua Cerchia. In un'occasione differente la avrebbe bonariamente derisa, ma si rendeva perfettamente conto che quello non era il momento di canzonare un agente dell'FBI. "Non urlare e ricordati che solo tu puoi vedermi" esclamò bruscamente, mentre con un sospiro chiudeva gli occhi e, nuovamente steso sul suo letto, proiettava la sua coscienza accanto alla donna, per avere una visuale completa della situazione, mentre la sentiva rivolgersi a Shawn. Proiettarsi sin da lei richiedeva un grande dispendio di energie, ma era la soluzione più rapida ed efficace per aiutarla, per mettere a disposizione le sue conoscenze. Non che le servissero le conoscenze pratiche di un criminale - era un agente dell'FBI, vivevano agli estrami opposti ma facevano parte dello stesso mondo e nello stesso mondo dovevano sopravvivere - ma un paio di occhi in più e una maggiore prestanza fisica avrebbero potuto contribuire. Perchè sicuramente l'agente Eos sapeva difendersi da sola, ma Roland era più alto e più robusto, dunque dotato di una forza maggiore. Proiettatosi al suo fianco, Roland si avvicinò al mobile che il maggiordomo stava spolverando poco prima: era risaputo che la maggior parte delle persone teneva le chiavi della propria auto vicino all'ingresso, magari in un qualche soprammobile di dubbio gusto. Peccato che, come Roland aveva sospettato, la ciotola posta sul mobiletto era vuota; dunque o Shawn non teneva le chiavi dell'auto nell'ingresso, o... "Ovunque sia il maggiordomo, ha preso le chiavi dell'auto" affermò, ma da quella posizione non riusciva comunque a vederlo "E probabilmente sarà andato ad armarsi anche lui: potrebbe essere necessario disarmarlo per recuperarle e allontanarsi da qui." Subito dopo aver pronunciato quelle parole, Roland si lasciò sfuggire un sospiro "Che te lo dico a fare, sei un'agente" si disse, cercando di guadagnare una visuale migliore: ma il suo raggio d'azione era assai limitato, essendo lui presente come mera coscienza e non come corpo in carne ed ossa, dunque non poteva sperare di individuare il cecchino e il maggiordomo senza far spostare Nalani in un'area esposta. "Arrivando si scorgeva una rampa non distante da questo ingresso, probabilmente porta al garage: l'ingresso che c'è in casa non deve essere lontano da qui, trovalo. Stare qui non ti servirà a niente se non a farti amazzare" sentenziò, incendo l'impulso di sfruttare quella connessione per afferrare Shawn con un braccio e trascinarselo dietro, lontano da lì: gli era stato chiesto un consiglio, ora stava a Nalani la mossa successiva. Fino a quando non la avesse vista fuori da lì, tuttavia, non se ne sarebbe andato. Combinare i riflessi di entrambi in caso di attacco ravvicinato si sarebbe potuto rivelare utile.


    Anche qui ho evitato di correre troppo con la narrazione, lasciando la palla a te e a Nalani, così vi muovete con maggior agio ;) Sentiti libera di richiedere l'intervento di Roland se può servire^^ anche se non è una scelta Nalani!style ahahah
     
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10 replies since 15/2/2016, 22:37   406 views
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